Danilo
Di Luca, abruzzese doc, amante di arrosticini e buona tavola, non esita a
definirsi un campione. Lui è nato col talento per le due ruote e con la
determinazione e la corazza di autostima che indossa può vincere tutto. «Sto
bene. Domani vinco» è un mantra che ripete a compagni, direttori sportivi e
amici di una vita. Con questa autobiografia dove il senso di colpa non esiste,
dove il più piccolo senso di vergogna non affiora, Di Luca tesse le lodi di sé
stesso riuscendo abilmente a trasformarsi da colpevole a vittima designata,
carne da macello tra le mani di CONI, UCI e WADA; bersaglio di un complotto più
grande di lui. Spinto dalla rabbia e dalla convinzione di aver subito un torto
racconta la sua storia con il doping e così facendo, secondo la sua prospettiva,
racconta la storia di tutti i ciclisti del pianeta. Nel ciclismo
professionistico, è la tesi, chi afferma di andare a pane e acqua mente. Tutti
si fanno, tutti si “curano”.
Voleva
essere una bomba per il movimento ciclistico, sarà nel bene o nel male un
cerino. Perché se il movimento tutto è davvero marcio fino al collo allora ben
vengano libri-verità che scoperchiano il marciume; si sa che anche nel ciclismo
vi sono irregolarità di vario tipo, è inutile fare i puristi del nulla; si sa
che il doping è in parte usato ed è lecito supporre che esistano giochi di
potere (come del resto anche nel miliardario mondo pallonaro); ma da qui a
sparare nel mucchio affermando tesi apodittiche e senza particolari riscontri
ce ne passa. La quarta di copertina recita: “Questa è la Gomorra del ciclismo”
con buona pace di Roberto Saviano. Una Gomorra del ciclismo sarebbe fatta di
nomi, date, luoghi, riferimenti puntuali. Se Saviano cita i Michele Zagaria, i Francesco
Schiavone e illustra i loro traffici allo stesso modo Di Luca avrebbe dovuto
citare i pezzi grossi, i pesi massimi, i dirigenti collusi, i ciclisti corrotti,
coloro che, come afferma lui coperti da sponsor e squadroni in stile Team SKY o
Mapei, erano “curati”, cioè dopati. Invece no. Sicuramente per comprensibili
timori di querele o ritorsioni di vario tipo ma di denuncia specifica non c’è
una vera traccia, una vera pista.
È autore
di una impreciso e vago qualunquismo e in diversi passaggi non risparmia fango praticamente
a nessuno dei suoi colleghi; non credendo
alle loro affermazioni di andare a pane e acqua. Per esempio riferendosi al
mondiale 2000 a Plouay, in Francia, racconta la sua eroica fuga di 200
chilometri, ripresa perché la squadra polacca prima e quella italiana poi,
senza alcun senso, si erano messe a tirare il gruppo chiudendo il distacco. Per
motivare questo atteggiamento obiettivamente autolesionista Di Luca tira in
ballo l’influenza lobbistica dei costruttori e delle federazione e conclude
asserendo di aver scoperto che il team polacco era stato comprato. Affermazione
teoricamente plausibile, anche nel ciclismo esisteranno dei farabutti e degli
interessi come nel calcio o nel basket ma che non trova alcun riscontro ad un
banalissimo fact checking in rete. Per di più non cita nomi, né costruttori né
marchi, né corridori. Per quale motivo un lettore dovrebbe dare pieno credito a
affermazioni tanto fumose e prive di fondamento?
Ma
questo sparare alla cieca nel mucchio è contraddetto più volte dalle stesse
dichiarazioni di Di Luca che forse, in un attimo di sobrietà e lucidità
mentale, mette in dubbio le sue stesse tesi. “Forse era dopato”, “Non lo
sapevo”, “Non so” e guarda caso quando si riferiva a corridori di fama. Nel
complesso quando è l’ora di entrare nel merito palesa un atteggiamento
svicolante e ambiguo. Come ambiguo e poco chiaro è anche il rapporto soprattutto
professionale con il suo medico di fiducia Carlo Santuccione, coinvolto nello
scandalo doping denominato “Oil for Drugs” per il quale viene radiato dal mondo
sportivo mentre Di Luca viene sospeso per circa tre mesi a causa del rapporto
sussistente tra lui e Santuccione, benché la procura sportiva non avesse in
effetti provato concretamente l’assunzione di sostanze da parte del ciclista. E
qui almeno emerge una verità sulle storture della giustizia sportiva per la
quale il solo sospetto costituisce prova di reato, lasciando le porte aperte
all’arbitrarietà decisionale, inesistente nell’ambito della giustizia
ordinaria.
Diversi sono
invece i due casi accertati dall’antidoping di positività al CERA (2009) e EPO
(2013) in cui le prove contro Di Luca sono evidenti e il corridore non fatica
ad ammetterlo, anzi, in alcuni passaggi molto interessanti, racconta le
modalità di somministrazione in endovena dell’EPO (la regina del ciclismo dopato)
e si lancia anche nell’elenco delle sostanze dopanti più diffuse quali il GH,
ormone della crescita, testosterone, insulina, EPO, vari tipi di CERA, viagra,
pastiglie di nitroglicerina, emotrasfusione più o meno potenziata non tacendo
gli effetti più devastanti a lungo termine quali ispessimento delle pareti
cardiache, tumori e trombosi. A testimonianza dell’incoscienza dell’atleta che si
sente onnipotente, al di sopra del mondo e che, in virtù della sua posizione,
può tutto; addirittura permettersi di rischiare un colpo apoplettico per
vincere una tappa o una classica del Nord. Di Luca, anche nello snocciolare
farmaci e posologie, assume un tono naturale, come naturale nel mondo del
ciclismo è appunto “curarsi”; l’idea di aver commesso un reato sportivo, una
frode di primo livello in un ambiente in cui le prestazioni determinano la
vittoria o la sconfitta, non scalfisce la sua spavalderia e la sua costante
sbruffonaggine che lo convincono che doparsi è necessario in un mondo di bari;
che tutti sono dopati e quindi se il doping è realtà assodata l’idea stessa che
esso costituisca reato decade. Insomma si normalizza.
Ciò che
non si smorza mai, e che per paradosso rappresenta la sua ancora di salvezza, è
l’egocentrismo di cui si fa bandiera e di cui Di Luca stesso è consapevole,
accettandone limiti e vantaggi. Infatti spesso recita il copione del Campione,
si sente tale, quasi benedetto e inviato dagli dei del ciclismo mondiale ma ad
un’attenta analisi di ciò che ha fatto o non ha fatto, in strada e non, e del
suo personale Palmarès si noterà che campione non lo è stato; tralasciando la
convenzione sociale per cui l’appellativo “campione” è attribuito dal pubblico
qualora vi sia giudizio uniforme sull’atleta e non dall’atleta stesso. Perché in
fondo cosa ha vinto Di Luca per meritarsi il titolo di Campione? Un Giro d’Italia
(2007) con relative tappe, una Liegi-Bastogne-Liegi nello stesso anno, un Giro
di Lombardia (2001), diverse tappe di competizioni minori. Praticamente assente
al Tour de France, mai vittorioso alla Freccia Vallone o alla Amstel Gold Race;
zero successi anche alla Vuelta a Espana, mai piazzato durante i mondiali per
professionisti e da dimenticare anche l’esperienza olimpica di Sydney quando
era ancora molto giovane. Semmai i campioni sono altri: Nibali, che si è
aggiudicato la Tripla Corona (2 Giri d’Italia, 1 Vuelta e 1 Tour de France)
oltre a numerose tappe, un Lombardia e una medaglia olimpica sfiorata; Felice
Gimondi, plurivincitore nei grandi giri; Francesco Moser, campione del mondo
(1977) e asso nelle classiche monumento: Parigi-Roubaix, Milano-Sanremo, Giro
di Lombardia oltre che vincitore di un Giro d’Italia (1984); Bradley Wiggins,
pluricampione del mondo e plurimedagliato olimpico e vincitore di un Tour nel
2012; tralasciando i vari Froome, Quintana, Bettini, Cipollini, Saronni, Coppi,
Bartali.
Un bagno
di umiltà e un buon esame di coscienza sarebbero forse i benvenuti.