venerdì 25 novembre 2016

The crown must always win


“The crown must always win”. Sta tutto qui gran parte del senso di questa serie tv 2016 targata Netflix che, a quanto si dice, non pare aver badato a spese per penetrare nelle stanze segrete di Buckingham Palace, nel gabinetto del Prime Minister a Downing Street, numero 10, ma soprattutto nella vita della regina. Infatti l’intero progetto sarebbe costato 100 milioni, ovvero 10 milioni ad episodio; un investimento di non poco conto per un serial ma che pare dare buoni frutti, anzi ottimi. Inutile girarci intorno “The Crown” è eccezionale, meraviglioso.

L’intera narrazione ruota intorno alle vicende familiari e politiche della regina Elisabetta II (Claire Foy) e del regno inglese, al cui comando, dopo il governo Attlee, siede sir Winston Churchill (John Lithgow), rieletto nel 1951. Lo spettatore poco avvezzo o più che altro abituato alle fiction nostrane potrebbe cadere nell’equivoco presumendo che l’intera storia giri attorno a romanticismo spinto, intrighi amorosi, tradimenti e gelosie. Innegabile che alcuni elementi vi siano anche qui ma sono elaborati con tatto, stile e senza forzature fastidiose. La produzione si concentra sui rapporti personali dei personaggi che si intrecciano inevitabilmente con il ruolo istituzionale che essi stessi ricoprono ingenerando una confusione identitaria che sfocia in contrasti trattenuti e incomprensioni matrimoniali. Esemplificativo il rapporto curato nei dettagli, che si evolve via via che si dipana la storia, tra Filippo (Matt Smith) ed Elisabetta. Da un idillio amoroso, che già traspare dai primissimi minuti della prima puntata, si passa gradualmente, causa l’incoronazione a regina della giovane Lilibeth, ad un rapporto più teso, meno fluido e armonico. Più istituzionale poiché appunto “the crown must always win”; Elisabetta stessa si trova in seria difficoltà, considerata anche la giovanissima età e un ambiente tutt’altro che placido, nel decidere di situazione in situazione quali panni indossare o smettere: quelli di regina imperturbabile e quasi anaffettiva o quelli di madre e moglie del principe di Mountbatten?


Il merito della serie, al di là della piacevolezza che le ore di visione possono garantire, sta nella capacità per nulla didascalica, ma al contrario, implicita, emozionante e fedele, di darci due lezioni: una di storia e una di politica britannica. Grazie alla fedeltà del contesto storico che viene dipinto sullo sfondo, in cui si inseriscono le vicende verosimili dei reali e degli uomini politici, lo spettatore si trova ad attraversare un’epoca di cambiamenti epocali e di vicende nazionali che spaziano dal Grande Smog del dicembre del 1952 ai test atomici sovietici, dai viaggi reali nei paesi del Commonwealth al rapporto di amore-odio che lega Edoardo VIII, il quale abdicò in favore del fratello Giorgio VI, alla Gran Bretagna. Un esempio di attinenza storica che andrebbe copiato dalle produzioni nostrane, vedere la serie de I Medici, criticata proprio sul versante della fedeltà storica da diverse parti, che prende la storia e la sbrindella piegandola alle necessità della propria trama fittizia. Allo stesso tempo la serie fa luce, soprattutto per noi continentali che mal capiamo e comprendiamo l’esistenza della Corona inglese, sull’importanza simbolica e culturale, prima ancora che politica, della monarchia inglese. Strabiliante a tal proposito il settimo episodio (Sapere è potere) dove un colloquio a Buckingham Palace tra la regina e Churchill, che per tradizione non può sedersi al cospetto della regnante, rivela l’essenza stessa, il succo, la linfa vitale su cui da secoli si regge la monarchia costituzionale britannica. E cioè la comunanza di intenti e la fiducia reciproca che deve esserci tra la parte operativa (the efficient) e la parte nobile (the dignified); ovvero il governo esecutivo e la dignità della Corona. Solo se questo requisito costituzionale è soddisfatto la tenuta politica del paese è assicurata.


In mezzo a tanta bontà è quindi superfluo lodare le ottime performance recitative di tutti i personaggi, con particolare menzione per quelle di Claire Foy e di un magnifico John Lithgow; perfetta la regia di Peter Morgan (già sceneggiatore del film The Queen), sempre puntale, elegante e sobria pur muovendosi in ambienti sfarzosi e immensi. Stesso discorso per le scenografie, i costumi e le musiche, in parte realizzate da quel genio di Hans Zimmer, e naturalmente la sceneggiatura , potente, evocativa, lineare, precisa. Per chi ancora non lo avesse visto, beh si sbrighi.

Voto complessivo: 10/10
Trama: 8/10
Musiche: 7/10
Personaggi: 9/10

Regia:10/10

mercoledì 23 novembre 2016

Dalla Sardegna con amore


Il primo approccio con un nuovo autore o autrice conduce sempre ad una biforcazione: da un lato si percorre la via dell’insensibilità o del distacco emotivo, declinati a seconda dell’effetto del libro secondo molteplici sfumature; dall’altro si verifica il colpo di fulmine, l’epifania letteraria che avviluppa il lettore nelle pagine inchiostrate del libro. Per “Chirù” vale la seconda strada. Inutile negare che Michela Murgia, nota soprattutto per “Accabadora” e finora vittima da parte di mia di un immotivato disinteresse, è stata una piacevolissima sorpresa.

“Chirù” fa parte di quel tipo di romanzi che non hanno genere ma che al contempo al suo interno sanno fondere e miscelare tipologie testuali che possiedono sfumature proprie. È un testo che, come un’eco lontana, richiama i romanzi di formazione e che si intreccia con la dialettica psicologica di cui Eleonora, la protagonista, è sorgente incessante anche perché la narrazione è in prima persona. A ciò si aggiunge una storia d’amore atipica, desiderata e ripudiata, voluta e spezzata, a suo modo sconveniente ed elettrizzante.
La vicenda che Murgia articola nelle quasi duecento pagine di testo ruota attorno al binomio Chirù-Eleonora, il quale si configura come il filo rosso che trasporta il lettore dall’inizio alla fine. Chirù è un ragazzo diciottenne dai riccioli fluidi, timido e astuto che cerca in Eleonora lo strumento per crescere, maturare ed uscire da un bozzolo di insicurezza per spiccare il volo. Eleonora è invece la sua maestra di vita, colei che lo inizia all’ipocrisia strisciante e intrinseca dell’uomo; gli insegna a munirsi di una maschera, a leggere le altrui finzioni e tale rivelazione costituirà la loro rovina.


Il personaggio di Eleonora è sicuramente il più interessante e contraddittorio  e l’autrice ne sviscera le sottili ipocrisie, le riflessioni puntuali velate da un cinismo che si mescola col realismo della quotidianità; cerca di descrivere la donna matura, più che trentenne, alla luce dell’esperienza dell’infanzia, dei rapporti incrinati con la famiglia di sangue, padre, madre e fratello che assumono, nel corso dello svolgimento narrativo, un peso crescentemente insignificante. Eleonora è anche il prototipo della “maestra spirituale” che, nella tradizione sarda, è una figura esterna alla famiglia la quale si prende cura della maturazione e dell’educazione extrascolastica di un ragazzo o di una ragazza. Tra i due soggetti si crea quindi un legame sia affettivo-emotivo che intellettuale che esula completamente dalla parentela di sangue ed è questa tipologia relazionale che Eleonora avidamente cerca e puntualmente trova.


L’architettura narrativa è poi sorretta da uno stile letterario preciso, ficcante, puntuale, caratterizzato da una proprietà lessicale e linguistica che raramente ho trovato nella narrativa italiana e che mi ha immediatamente suscitato un paragone tanto scomodo quanto corretto con Philip Roth. Murgia è capace in poche parole di esprimere un concetto denso di significato sul quale si è costretti a tornare più volte, non perché risulti incomprensibile, tutt’altro, ma perché è impossibile non essere catturati o affascinati da come l’autrice sarda plasma le parole e le frasi.