giovedì 29 dicembre 2016

Quel Pasticciaccio di Gadda

Copertina Garzanti del romanzo.
 L'ultimo post dell'anno lo dedico ad un libro molto particolare: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Il Pasticciaccio rappresenta, all’interno della produzione bibliografica di Gadda, l’opera più significativa e più nota al grande pubblico. Parte dell’attuale romanzo fu pubblicata dapprima sulla rivista Letteratura nel biennio 1946-47 e poi in forma compiuta, come oggi lo conosciamo, dall’editore Livio Garzanti nel 1957. È proprio grazie a Garzanti, editore di Pasolini, Fenoglio e Parise tra gli altri, che oggi possiamo leggere Gadda; fu infatti proprio lui che trasformò l’autore milanese da scrittore d’élite a romanziere di successo ripubblicando gran parte delle sue opere.

L’intreccio narrativo, che viene periodicamente definito “garbuglio”, “nodo”, “groppo”, “groviglio” facendo intendere già la polisemia e la sinonimia che compongono lo stile gaddiano, si presenta al lettore come un comune romanzo giallo dotato degli stereotipi del genere: un delitto, un corpo di polizia che indaga, un protagonista interno al suddetto corpo di polizia e lo sviluppo del bandolo narrativo attraverso scoperte accidentali, interrogazioni in commissariato e ricerche sul campo. Nel Pasticciaccio i reati sono addirittura due, lasciando presagire un filo rosso comune che li unisca come da prassi moderna, ovvero: furto con scasso e omicidio efferato. Protagoniste degli eventi due signore abitanti sullo stesso pianerottolo di un palazzo romano, la signora Menecacci e la sora Liliana Balducci. Quest’ultima viene ritrovata morta dal cugino Valdarena, col quale aveva costruito un rapporto altamente ambiguo dettato dal desiderio di maternità insoddisfatto a causa del di lei coniuge, riversa sul pavimento della cucina con la gola squarciata, segno di una violenza brutale. A guidare le ricerche un comando di polizia romano tra cui spicca il dottor Ciccio Ingravallo, un poliziotto duro, dai tratti aquilini e dai capelli neri come la pece, estremamente riflessivo. Un archetipo dei proliferanti ispettori e commissari che abitano gli schermi televisivi e i libri di successo: dal Montalbano impersonato da Luca Zingaretti al Rocco Schiavone nato dalla penna di Antonio Manzini. È un commissario ante litteram, calato a viva forza nell’Italia fascista degli anni ’20, ben lontano sia dall’acume distaccato e imprevedibile di Sherlock Holmes come anche dall’eleganza intellettuale di Hercule Poirot. Per il lettore “giallovoro” (come direbbe Gadda) che si aspettasse un’evoluzione lineare del racconto ci sarebbe spazio solo per lo stupore e, sicuramente, la delusione. Gadda infatti costruisce un anti-giallo, via via che il testo procede lo destruttura, lo trasforma in una parodia del genere in cui Agatha Christie ha eccelso. Le indagini e gli interrogatori non diventano altro che un pretesto per l’autore per penetrare con il bisturi della lingua e delle digressioni nell’intimità psicologica sia dei singoli protagonisti che della realtà che li circonda. Una realtà che cade sotto i colpi ironici dell’autore milanese il quale, partendo dall’interno della stessa, si diverte a ridicolizzarla, a farne un’eco di sé stessa. Il giallo si tramuta in farsa tanto che alla fine dell’intero racconto i colpevoli, pur se probabilmente  individuati, non vengono catturati. Gadda sembra quasi prendersi gioco del lettore che, in uno sforzo non secondario nel tentativo di rendere intellegibile una prosa che intellegibile spesso non è, si ritrova col cerino in mano una volta giunto all’ultima riga dell’ultima pagina. Sembra udire Gadda spernacchiare il malcapitato di turno.

Carlo Emilio Gadda
Le cifre stilistiche di questo libro sui generis sono principalmente due: il forte espressionismo e l’inventiva linguistica, vero elemento di scarto rispetto a qualunque altra forma e tradizione narrativa mai conosciute in Italia. L’espressionismo gaddiano è caratterizzato da descrizioni evocative e molto spesso minuziose che tentano di penetrare e individuare la vera essenza di oggetti, cose, luoghi e persone e che, una volta concluse, sembrano suggerire l’impossibilità della parola scritta di carpire l’essenza ultima di ogni cosa, di colmare la distanza che esiste tra ciò che è e la sua rappresentazione, sia essa grafica, visiva o scrittoria. Diversissime nel corso del romanzo sono queste incursioni che interrompono lo svolgimento nella trama costringendo il lettore ad entrare in un nuovo mondo mai conosciuto prima. L’espressionismo di Gadda trova compimento in un passo come questo: «Guardava le ragazze, ricambiava d’un lampo, come une profonda malinconica nota, le guardate ardite dei giovani: una carezza o una benevola franchia, mentalmente largite ai futuri largitori della vita: a qualunque le paresse portare in sé la certezza, la verità germile, gheriglio del segreto divenire». Un prosa lirica e compassionevole dove il ventre materno che dona la vita viene paragonato ad un gheriglio pronto a dischiudersi.

Impossibile quando si affronta Gadda non inciampare, pagina sì pagina no, nel suo linguaggio poliedrico e polisemico. Una selva di termini dialettali (abbitudine, adottà, avècce, papabbraschi, sghei) a cui fanno da controcanto neologismi (scaricabarilistico, dekirkegaardizzare, giallazio) e parole auliche o in disuso (indelibata, merule, germile, palàncola) che  spesso e volentieri costringono a ricorrere al dizionario Treccani. Quello di Gadda non è tuttavia un mero esercizio di stile per dimostrare di essere un pozzo di scienza ma, come già fatto con il genere giallo, l’autore si diverte a distruggere il linguaggio, a desacralizzarlo e a ricomporlo a proprio piacimento sbizzarrendosi come meglio crede e lanciandosi in digressioni filosofiche e filologiche, incidentali di molte righe, parentesi e descrizioni parodistiche e meticolose al limite della pedanteria. Basti pensare ai passaggi in cui Gadda si sofferma sui gioielli della sora Liliana, sul tabernacolo lungo la via Appia e sulla visione dall’alto delle colline della burocratica Roma che giace, nella cornice visiva del brigadiere Pestalozzi, come un animale addormentato. Qualunque tentativo di riassumere la scrittura di Gadda sarebbe inutile, vano ed incomprensibile.

Fotogramma tratto dal corto animato The Ducktators del 1942.
Qui reperibile: https://www.youtube.com/watch?v=522qtqjSagM
Una delle tante note di colore che percorrono il testo è data dall’incredibile e infinita sequenza di epiteti con i quali Gadda si diverte a dipingere, senza mai nominarlo per nome in modo esplicito, Benito Mussolini. A seconda del caso lo chiama il “Buce” o “Predappiofesso” o ancora “l’Artefice”. Ne mette in risalto, con sagacia sarcastica, il proverbiale capoccione e ridicolizza quella stessa Italia ordinata, precisa e orgogliosa di sè (di cui Ingravallo stesso fa parte essendo un polizotto dello Stato) che il Duce propagandava e propugnava. Una colossale messinscena retorica che Gadda svilisce limitandosi alla descrizioni delle cloache e delle viuzze romane dove l’orgoglio italico lascia il posto a battone, ladruncoli, sicari e povera gente costretta a mendicare o rubacchiare, a seconda dell’indole, per poter sopravvivere. Lo schiaffo di Gadda alla “Fiera Italia”.

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Carlo Emilio Gadda
Garzanti, pp. 344, 1957



sabato 24 dicembre 2016

La vera storia del fratello di Walt Disney

Dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna, si dice. Tuttavia non sempre questo motto è vero. In questa Storia, con la S maiuscola, dietro un grande uomo si cela un grande fratello, sconosciuto ai più ma pedina imprescindibile nella costruzione del successo di una delle personalità più geniali, imprevedibili, testarde e indipendenti del mondo dell’intrattenimento: Walter Elias Disney, in arte Walt Disney.



Disegnato da Lorenzo Magalotti, sceneggiato da Filippo Zambello e Alessio De Santa con le tavole scenografiche di Giulia Priori e Lavinia Pressato, The Moneyman. La vera storia del fratello di Walt Disney è una delle ultime fatiche della casa editrice laziale Tunuè, specializzata nei graphic novel. La scelta del soggetto è curiosa, infatti quanti sapevano che il papà di Mickey Mouse avesse anche un fratello? Praticamente nessuno poiché la sua figura, al contrario del fratello “ingombrante”, è stata tutt’altro che istrionica. Gli autori di questo elegante volume dalla copertina gialla strappano dal buio dell'anonimato Roy Oliver Disney e ne ripercorrono la vita travagliata, tra alti e bassi, difficoltà e trionfi. Dalla povertà della vita di campagna al primo lavoro in banca, dal coinvolgimento nella Prima Guerra Mondiale al successo a Hollywood. Roy, figura silenziosa, è stato testimone e costruttore di un’epoca senza precedenti, di un Impero dei Sogni capace di far volare con la fantasia milioni di persone, giovani, anziane e adulte.


La struttura narrativa scelta è quella della cornice, espediente usato per esempio nel film Forrest Gump dove Tom Hanks, seduto su una panchina, racconta la storia della sua vita agli occasionali interlocutori. In questo caso Roy si trova ad Orlando per inaugurare nel 1971 Disneyworld, l’ultimo progetto di Walt. Nella hall dell’albergo, mentre aspetta che la camera sia libera, incontra una signora che lo sprona a raccontarsi. Inizia così un lungo flashback che ci permette di ripercorrere l’intera carriera dei Disney. Sebbene il racconto si focalizzi, o tenti almeno, su Roy, il protagonista indiscusso è Walt Disney; la storia personale del fratello appare come un pretesto per raccontare quella di Walt. Come tutti i geni della modernità anche la carriera di Walt ha origine nel garage della casa paterna a Marceline (Missouri); qui, con tenacia, spirito di inventiva e poca testa sulle spalle inizia la sua carriera di disegnatore di cartoni animati che si avvia nel 1922 con la fondazione della Laugh-O-Gram Studio in cui coinvolge Ub Iwerks, il primo padre figurativo (escluso Walt ovviamente) di Mickey Mouse che apparirà solo qualche anno dopo. Nel 1925, su suggerimento del Grillo Parlante Roy, lo studio cambia il nome in Walt Disney Studio; è la nascita di un marchio, di un brand immortale che oggi fattura miliardi ogni anno.



Il percorso non è stato tutto rose e fiori come si potrebbe pensare ma il cammino di Walt e Roy ha conosciuto numerosi inciampi tra cui le due guerre e soprattutto il forte indebitamento nei confronti della Bank of America con cui i Disney arrivarono ad essere esposti per quasi 5 milioni di dollari. Ed è in questi frangenti di estrema delicatezza, dove l’irragionevolezza di Walt avrebbe trascinato l’impresa nella polvere, che Roy prende in mano le redini del gioco. Parla e si confronta con investitori e banchieri, media, discute, propone, ascolta e parla attraversando un mondo lucente che spazia da Charlie Chaplin al miliardario Howard Hughes. Convince Walt a trasformare l’azienda in una S.P.A. e, nel momento del bisogno, a tagliare il personale, scelta sofferta fino allo stremo da entrambi. Roy è il lume della ragione, il raziocinio che deve combattere giorno per giorno con la follia di genio del fratello la quale, nel momento più buio quando cioè la Universal gli sottrae personale specializzato e diritti su Oswald il coniglio fortunato, risulta essere l’àncora di salvataggio. Infatti, chicca poco conosciuta, è sul treno di ritorno da New York che Walt Disney inventa Mortimer Mouse che diventa Mickey grazie alla forza di persuasione della moglie che trovava Mortimer un nome fuori contesto. Da lì è un crescendo di successi. Mickey Mouse diventa un’icona dopo la sua prima apparizione nel cortometraggio animato Steamboat Willie, rivoluzionario nella tecnica poiché Disney azzardò la sovrapposizione tra sonoro e video e vinse la scommessa. A cui seguono diversi altri progetti tra cui le Silly Symphonies che riscuotono approvazione da parte del pubblico, almeno fino al crac del giovedì nero di Wall Street quando l’America viene messa in ginocchio dalla crisi finanziaria. Ma è proprio qui che, forse, nasce veramente il successo di Walt Disney; in un paese con tassi di disoccupazione alle stelle e un’economia distrutta Walt fu in grado di regalare agli spettatori un sorriso, un sogno, un’oasi felice, seppur di breve durata, in cui dimenticare i problemi e le miserie della vita. Ha costruito una speranza grazie a Mickey Mouse e ai Tre Porcellini. Ma Walt non si accontenta e continua a sperimentare decidendo di mettere in produzione qualcosa di inverosimile, economicamente insostenibile: un lungometraggio animato a colori. Anche in questo caso Roy cerca di limitare l’estrosità del fratello sottolineando la situazione precaria delle finanze aziendali ma Walt, testardo come un mulo procede a testa bassa, e nel 1937 esce nelle sale Biancaneve e i sette nani. Successo in technicolor pari se non superiore ai corti di Mickey Mouse & Co., tanto da aggiudicarsi diversi premi, ma che fu comunque insufficiente per rientrare dall’investimento iniziale. Nonostante ciò, con quel lavoro, Walt Disney aveva cambiato la storia dell’animazione per sempre. La storia della coppia di fratelli procede tra inciampi bellici, documentarismo, progetti falliti e riusciti che pongono le fondamenta della attuale Disney.

Il volume di Tunuè è un doppio omaggio a ognuno dei fratelli e un ritratto antropologico di Walt. Con Roy scopriamo la virtù dell’umiltà; la capacità di stare dietro le quinte e fronteggiare le bizzarrie del fratello nel tentativo di “mandare avanti la baracca”. Dall’altro lato entriamo a contatto con la personalità di Walt Disney, con il suo carattere ambivalente che alterna momenti di rabbia e frustrazione che cerca di placare con decine di sigarette, a momenti di tenerezza fraterna. Senza dimenticare la sua inventiva, la facoltà propria dei geni di “vedere” oltre, di non accontentarsi e di rischiare qualora la condizione lo permetta e lo richieda. Chi avrebbe scommesso, non una carriera, ma un’azienda intera su un topo antropomorfo in pantaloncini corti che fischietta? Chi, potendo non rischiare, avrebbe investito in tecniche innovative mai sperimentate come il technicolor? E chi avrebbe investito milioni di dollari nella costruzione di parchi a tema senza disporre di ricerche di mercato ma affidandosi solamente al proprio estro e soprattutto ai propri desideri? Pochi, forse nessuno. Solo Walt Disney, il visionario, grazie all’appoggio del suo moneyman di fiducia, Roy.

"Ci ha illusi tutti...di poter restare per sempre ragazzi".

The moneyman. La vera storia di Walt Disney
Filippo Zambello, Lorenzo Magalotti
Tunuè, pp. 173, 2016
16,90


martedì 20 dicembre 2016

Un libro sotto l'albero!

Periodo natalizio significa, che piaccia o meno, regali, regali e regali. Ogni anno l’ennesimo problema: cosa posso regalare? Gli/Le piacerà? Chiunque di noi, almeno una volta nella vita, si è posto questi quesiti e sempre più spesso risulta difficile dare una risposta. Quindi, per i ritardatari, gli indecisi, i titubanti e quelli dell’ultimo minuto, quale oggetto migliore da regalare se non un bel libro e che fa sempre piacere? Insomma un dono con cui andare sul sicuro. Certo è che non tutti i libri sono uguali e non tutti i lettori hanno gli stessi gusti; e allora che fare? Semplice! Affidarsi a questa piccola raccolta di consigli librari natalizi po’ fare al caso vostro!




NARRATIVA ITALIANA 


Si sa il periodo natalizio è sinonimo di scaffali librari che esplodono. Chiunque di voi, entrando in qualunque libreria, si sarà sentito soffocare di fronte alla tonnellata di titoli nuovi: da Baricco (nuova edizione illustrata di Seta, Feltrinelli) a Saviano (La paranza dei bambini, Feltrinelli); da Volo (A cosa servono i desideri; Mondadori) a Carrisi (Il maestro delle ombre; Longanesi). Tra questo marasma merita un occhio di riguardo il nuovo capitolo della saga dei bastardi di Pizzofalcone di Maurizio De Giovanni: Pane (Mondadori; 232 p.). Lo scrittore napoletano fa rincontrare i suoi amati "bastardi" ai suoi fedeli e appassionati lettori ma il libro, sebbene legato ai volumi precedenti, può essere letto come un'opera a sé stante. Fulminante l'incipit con cui De Giovanni intrappola il lettore e lo conduce, prendendolo per mano, nei meandri della storia: il Principe dell'Alba, il panettiere che da generazioni si occupa di fornire il pane del mattino all'intera comunità viene trovato morto, ucciso pochi minuti dopo aver compiuto il suo Rito. Starà alla squadra dei Bastardi trovare il bandolo della matassa in una corsa dove l'unico "nemico" non è solo l'assassino. Astenersi dalla lettura se non si è ancora pranzato. Può indurre a strafogamenti  incontrollati di pane caldo!


Un altro titolo piacevole (e in tema col periodo) per passare qualche ora divertente è I fratelli Kristmas. Un racconto di Natale (Einuadi; 227 p.) di Giacomo Papi, uscito già un anno fa. È la storia di Babbo Natale che, costretto a letto dall’influenza, si vede obbligato ad affidare la consegna dei regali al fratello, Luciano Kristmas, un burbero magro e allampanato che si professa “uguagliatore”, cioè un comunista. Il tentativo di consegna, che procede tra diverse difficoltà, si intreccia con la vita di una coppia di fratelli e con gli interessi speculativi di un ricco miliardario, disposto a qualsiasi cosa pur di conquistare il copyright del Natale. Un libro scorrevole, veloce, senza alcuna pretesa ma che è venato di ironia e leggerezza; una lettura perfetta da far trovare sotto l’albero!

NARRATIVA STRANIERA



Dall'America più profonda, grazie all'intuito della NNE, ci giunge un piccolo gioiello letterario che prende la forma di un trittico dal nome evocativo: Trilogia della pianura, formata dei seguenti titoli: Benedizione, Crepuscolo e Canto della pianura (NNE; 3 voll., 950 p.), opera di Kent Haruf e che si presenta in libreria in un elegante cofanetto marrone il cui minimalismo grafico replica la scrittura decisa, limpida e asciutta come la sabbia della contea di Holt. Una fittizia landa incastonata nel cuore profondo del paese della lunghe strade e dei canyon rocciosi. Haruf, con il suo tocco ruvido e senza fronzoli, nel primo volume Benedizione, ci trasporta nella vita del vecchio Dad Lewis, prossimo alla morte, e della moglie Mary. A far da controcanto alla vita del vecchio Haruf inserisce numerosi personaggi: ognuno con le sue debolezze, i suoi  segreti e le proprie contraddizioni che, lentamente, deflagreranno e verranno a galla. Lo stesso Dad Lewis non ne è immune. Haruf ha avuto la capacità di scrivere un classico moderno, un libro che resterà per sempre nella storia della letteratura americana. Prima di abbordare Franzen, Cussler o Safran Foer, cambiate leggermente rotta e godetevi Kent Haruf. 


Visto il crescente interesse sociale per temi legati all’alimentazione e alla difesa dell’ambiente in tutte le sue forme, segnalo La vegetariana (Adelphi; 176 p.) di Han Kang, vincitrice del Man Booker International Prize 2016. L’intera vicenda si evolve a partire da un sogno di Yeong-hye, la figura centrale dell’intera narrazione. Il sogno che le sconvolge la vita, e quella dei suoi cari, le provoca un impellente rifiuto di mangiare carne; “Be’ ho fatto un sogno, e stavo sulla testa… Sul mio corpo crescevano le foglie, e dalle mani mi spuntavano le radici.” La donna si identifica con gli alberi e questa reazione provoca sconcerto e repulsione da parte della sua famiglia. Han Kang suddivide la narrazione in tre atti, ognuno dei quali raccontato da un punto di vista differente, e attorciglia tra loro gli eventi facendo presagire una tragedia. Un libro che va oltre le sterili battaglie combattute a colpi di tweet e post fra animalisti esagitati e carnivori orgogliosi e che si eleva ad alta letteratura.


GRAPHIC NOVEL 


Tra le possibilità  non può mancare il genere che da qualche tempo imperversa in lungo e in largo: il graphic novel che (forse finalmente) dopo anni di snobismo ha trascinato  il fumetto tra le "arti nobili". È perfino difficile scegliere tra il ben di Dio che affolla gli scaffali delle librerie ma ecco qualche indicazione. Imprescindibile, per divertimento ma anche per il valore cronachistico e attualissimo, Kobane calling di Zerocalcare (Bao Publishing; 270 p.). Viaggio semifittizio dell'alter ego di Michele Rech nel Kurdistan in guerra, un paese che rivendica da anni l'indipendenza e che avrebbe in serbo una Costituzione ultrademocratica, quasi utopistica. Sempre da casa Bao Da quassù la terra è bellissima (Bao Publishing; 208 p.) di Toni Bruno che racconta la storia di Akim Smirnov, eroe sovietico della corsa allo spazio che, dopo una missione che nasconde un mistero, decide di non volare mai più. Il governo russo, impegnato nella corsa allo spazio contro il rivale americano, cerca in tutti i modi di convincere il proprio miglior pilota a riflettere sulla sua decisione. Ultimo ma non ultimo il fumetto scritto dalla coppia artistica, come anche nella vita, Teresa Radice-Stefano Turconi che ci regala Il porto proibito (Bao Publishing; 280 p.). Una storia avvincente e dal tocco sensibile, accentuato dal tratto morbido ma deciso della matita di Turconi, che segue le vicende di un giovane marinaio naufrago, Abel, che, a seguito del disastro, ha perso la memoria. Grazie all'intervento di una nave inglese riesce a tornare in patria dove il recupero progressivo della memoria porta con sé misteri, rivelazioni e chiarimenti.  


RACCONTI 


Per coloro che non hanno molto tempo e preferiscono un lettura mordi e fuggi non c'è categoria migliore se non quella dei racconti, anch'essa per lungo tempo sottovalutata. Oltre al premio Nobel 2013 Alice Munro, sempre apprezzabile, da segnalare La donna che scriveva racconti (Bollati Boringhieri; 460 p.) di Lucia Berlin, una raccolta dei racconti di questa scrittrice americana sconosciuta ai più ma dalla voce narrativa intima, efficace, coinvolgente e sensibile. Non tace nulla nei suoi racconti e affronta temi scabrosi che spaziano dalla droga all'aborto, dall'alcolismo alle turbolenze famigliari. Berlin si fa poetessa di quella umanità tanto emarginata dal mondo quanto cantata e raccontata dalla letteratura.


Per chi volesse rimanere in territorio italiano utile sarebbe la riscoperta di un volume di Goffredo Parise, Sillabari (Adelphi, 359). Esso raccoglie decine di brevissime storie, non più lunghe di 6 o 7 pagine, ordinate in ordine alfabetico quasi a voler formare un vocabolario del vivere. Si va dalla A di affetto e amore alla P di patria e povertà; dalla E di età ed eleganza alla S di simpatia e sogno. Parise, con un tocco leggero ma penetrante, si insinua nella quotidianità e nell’intimità della giravolta di personaggi che cambiano di storia in storia, impedendo al lettore di affezionarsi ad uno piuttosto che all’altro ma facendogli notare che, in ognuno di essi, c’è un parte di lui. Adattissimo per una lettura spiccia tra una fermata del metro e l’altra. 



Qualunque altro consiglio è ben accetto!



Inoltre, a breve, una seconda lista dedicata alla saggistica!


martedì 13 dicembre 2016

Siete voi il 3%?



Con 3% Netflix ha vinto la sua scommessa brasiliana. Dubbi legittimi potevano sorgere di fronte a questa sperimentazione che rompe decisamente con la tradizione di serie televisive americane (GOT, Breaking Bad, How I met your mother) o britanniche (The Crown, Sherlock) a cui ormai da anni siamo abituati. Con 3% si respira inevitabilmente un’aria nuova, non forse nei contenuti che come vedremo non sono particolarmente innovativi, ma nel ritmo, nella composizione, nei dialoghi e nella musica. 
L’idea da cui l’ideatore Pedro Aguilera è partito rientra in quella fortunatissima categoria young adult che va sotto il nome di racconto distopico. Celebri sono i personaggi che hanno popolato negli ultimi anni il mondo cinematografico di questo genere: dalla Katniss Everdeen di Hunger Games alla Trice Prior della serie Divergent, passando per i ragazzi in fuga di Maze runner. Tutti uniti dalla stessa età anagrafica, una rivolta giovanile contro un vecchio potere costituito corrotto. E anche in 3% ritornano le stesse dinamiche, gli stessi stilemi narrativi e gli stessi giovani; quindi nulla di nuovo sotto il sole ma ciò che è “usato” non rappresenta necessariamente una noiosa ripetizione. Sin dalla prima scena siamo catapultati in un mondo “altro”, in un futuro prossimo che, come nelle migliori distopie, così lontano potrebbe non essere. La popolazione è divisa in due fette: un 97% di indigenti poveri lasciati a vivere in quella che dall’alto appare come una favela colorata, percorsa da vicoli stretti e angusti, popolata da misera gente vestita di stracci e che fatica a procacciarsi cibo. Ecco che già dalla primissima inquadratura l’esperienza brasileira della serie inizia ad infiltrarsi nella mente attenta dello spettatore che non può sottrarsi dal chiedersi: e il restante 3%? Il misero resto della popolazione vive in un luogo distante e inaccessibile, una specie di isola felice lontana dalla povertà, chiamata Offshore, come i paradisi fiscali. E in effetti rappresenta un paradiso agli occhi di quei giovani del ghetto che partecipano al Processo, ovvero un passaggio rituale che consiste in diverse prove di gruppo e individuali per testare le qualità dei singoli pretendenti e determinare la loro legittimità a diventare parte della società ideale che abita nell’Offshore, dove la sola idea del suicidio porta con sé lo stigma della riprovazione generale. D’altronde, in una società perfetta come è possibile provare tanta tristezza e depressione da pensare di togliersi la vita?

I ragazzi protagonisti, i cui percorsi pre-Processo e le cui vicende umane e personali vengono gradualmente chiarite nel corso delle prime puntate, si trovano invischiati in un gioco cinico che li mette spesso uno contro l’altro spingendoli in situazioni estreme che rivelano la vera natura dei protagonisti e che pongono domande morali non solo a Michele, Fernando, Joana, Marco, Rafael ma anche allo spettatore. Cosa avresti fatto tu? Avresti tradito o avresti sacrificato all’altare dell’onestà e della integrità morale l’unica possibilità di una vita migliore? Fino a che punto saresti disposto a spingerti per ottenere ciò che brami? Sei disposto anche a morire? Sono questi e altri dilemmi morali che essi devono risolvere e non sempre è possibile venire a capo di una soluzione quando l’etica si scontra con l’interesse. In questo meccanismo perverso e affascinante, in cui chi tiene il telecomando prova il sollievo del non-decidere e dell’ignavia, lo spettatore viene trascinato aspettando con trepidazione le prove a cui i ragazzi sono sottoposti e le loro capacità intellettive e organizzative per risolvere gli enigmi e i problemi che vengono loro presentati. Ci divertiamo nell’ accompagnarli in questa gimcana torturatrice la cui unica via d’uscita sta nella sconfitta del proprio compagno. Come ogni altra serie televisiva che si rispetti, il racconto è percorso da sottotrame, più o meno riuscite, come per esempio la presenza ineludibile di una Causa che combatte contro lo status quo e cerca di sabotare il Processo dall’interno e dall’esterno.


In conclusione l’intera produzione è caratterizzata da una buona regia che cerca spesso i primi piani e l’enfatizzazione dell’emotività e dell’interiorità dei personaggi; da dialoghi veloci e serrati in cui si insinua una colonna sonora interessante di matrice portoghese che accentua nello spettatore, assuefatto a musiche zimmeriane o da colossal, il senso di straniamento per la serie. Da notare anche la povertà di mezzi di cui la produzione ha disposto e la capacità di tenere in piedi l’intero progetto all’interno di spazi molto limitati ed esigui ma efficacemente caratterizzanti. Infine la serie, al di là dei singoli garbugli morali che la attraversano, tocca un tasto dolente e accende la luce su una riflessione attualissima e cioè la disuguaglianza sempre crescente tra un esiguo numero di ultraricchi e un ammasso di miliardi di persone sempre più povero. 3% è una esagerazione e infatti è un’opera di ficiton ma siamo così sicuri che qualcosa di simile non possa verificarsi, pur con le dovute differenze, in futuro? Che non sorga la necessità di fare una cernita dell’umanità “migliore”? Che non si assista ad una crescente conflittualità tra ricchi e poveri? Che non diventeremo anche noi tanti piccoli Rafael o Michele o Marco? Per ora non ci sono risposte ma per scoprire i destini di questi ragazzi non resta altro che accendere Netflix e attaccare 3%.

Voto complessivo: 8/10
Trama: 8/10
Musiche:7/10
Personaggi: 8/10
Regia: 7/10