domenica 30 luglio 2017

I custodi di Slade House

La copertina del libro.
Addentrarsi nell'ultimo romanzo di David Mitchell, I custodi di Slade House, è un po' come ritrovarsi nel disegno delle scale di Escher in cui non si capisce se si stia scendendo o salendo e in cui l'occhio torna sempre al punto di partenza catturato da un'illusione ottica che non lascia scampo. Così accade anche nel romanzo giacché alla fine di ogni capitolo il lettore torna al punto di partenza e, con personaggi diversi e tempi storici diversi, rivive le stesse dinamiche quasi in un loop senza fine che alla lunga rischia di risultare anche noioso. Mitchell infatti compone e ricompone la stessa storia variandone alcune parti (personaggi, contesto storico, costrutti e subcostrutti) ma mantenendo una struttura complessiva pressoché invariata che  un buon ritmo alla composizione narrativa. I quattro personaggi che nel corso del tempo si sostituiscono sembrano più anime di una stessa persona e Mitchell veicola l'idea della presenza di continuità attraverso una nemmeno tanto velata reiterazione degli stessi elementiUn uomo che corre con una tuta arancione; il pub The Fox and Hounds, gli occhi vuoti, cicatrici più metaforiche che fisiche. Stessi elementi, un unico destino. 

Inghilterra. 1978. Rita e il giovane Natan Bishop sono ospiti di Slade House, un elegante maniero vagamente goticheggiante ricoperto di edera rossa e circondato da un giardino da favola e da un muro di cinta che impedisce di vedere il mondo esterno. È all'interno di questo muro di cinta, dopo aver oltrepassato l'Apertura, che per Nathan il sogno si trasforma in incubo. Il gioco a cui lo ha  invitato il figlio dei padroni di casa si rivela una trappola senza scampo: il giardino scompare, la luce si trasforma nel suo opposto, Nathan si trova a salire una rampa di scale lungo la quale sono appesi dei quadri di poco valore e in una delle cornice vede se stesso privo di occhi. Un attimo dopo si trova di fronte ad uno specchio, paralizzato da qualcosa che sembra terrore ma terrore non è e ai suoi lati due figure semi incappucciate lo osservano compiaciute, i gemelli Norah e Jonah Grayer, pronte a succhiargli l'anima. Una pagina bianca introduce un altro capitolo, un'altra trappola ben congegnata dalla coppia assassina e una nuova vittima. I gemelli Grayer, che si scopre essere entità occulte che si cibano ogni nove anni esatti delle anime delle prede umane che con l'inganno riescono a catturare e far sparire dalla circolazionegiocano al gatto col topo e variano le modalità del gioco in relazione alle vittime predestinate. Con un accurato lavoro psicologico che si sostanzia nel cosiddetto costrutto, i gemelli inscenano ciò che intimamente i narratori delle storie desiderano: un compagno di giochi per il piccolo Nathan Bishop, un'occasione per una nuova relazione per il poliziotto Gordon Edmondsuna festa universitaria vagamente americana per Sally Timms, la ricerca della sorella scomparsa per Frida Timms. Inevitabile che la vicinanza dell'oggetto del desiderio annebbi la mente degli eroi mitchelliani favorendo l'abbassamento della soglia di guardia contro pericoli che sembrano non poter piovere da alcuna parte. Grayer si distinguono per un metamorfismo degno di Dracula (e la magione di Slade House evoca il castello del conte di Bram Stoker) e per doti attoriali fuori dal comune con cui pongono le fondamenta della cattura delle facili prede attratte da un mondo irresistibile di illusioni artefatte. Cosi come Harry Potter vede riflessi nello specchio magico i suoi desideri più profondi così i narratori, cioè i protagonisti, che si alternano senza accorgersene toccano con mano ciò che bramano. Lo vedono concretizzarsi. La differenza sta nel fatto che il maghetto viene prontamente messo in guardia, e dunque salvato, da Silente mentre i protagonisti non hanno la stessa fortuna e vengono risucchiatnel vortice di bramosia e necessita vitale dei Grayer. 

David Mitchell.
Strutturalmente Mitchell si indebita con i romanzi di Arthur Conan Doyle con protagonista la coppia Holmes-Watson. Il baronetto inglese ha ripetuto in alcuni suoi testi la stessa struttura formale cambiandone i contenuti, le vicende e i personaggi ma lasciando immutata l'architettura narrativa. Nella prima parte viene commesso il delitto e Holmes si adopera per risolvere l'enigma giungendo immancabilmente alla soluzione, nella seconda parte Doyle inserisce lunghi flashback che spiegano da dove ha origine il crimine e nella terza d ultima parte, spesso brevissima, c'è lo scioglimento finale. Mitchell si limita a replicare platealmente questo schema già ben rodato che, sorretto da una buona penna capace di tenere alta la tensione, acuisce il senso di suspense e attesa. Ecco che nella prima parte vengono commessi i furti di anime, nella seconda il lettore viene ragguagliato sull'origine dei gemelli Grayer e nella terza vengono tirate le fila del discorso e si arriva allo scioglimento dei nodi narrativi. L'abilità narrativa di David Mitchell trova conferma tangibile nella capacità di coinvolgere il lettore trascinandolo nel testo grazie all'accortezza non banale di utilizzare la narrazione in prima persona che favorisce l'identificazione e l'immedesimazione del lettore con i personaggi. Contemporaneamente però Mitchell contrae qualche debito di troppo con diversi suoi colleghi: atmosfere vagamente stokeriane, una struttura narrativa che attinge alla tradizione di Conan Doyle e la ciclicità dei mostri del caso che ricorda vagamente l'It di Stephen King. Inoltre Mitchell riesce a fermarsi in tempo prima che la reiterata tessitura narrativa trasformi il tutto in una brodaglia noiosa. In conclusione l'autore inglese mette in piedi un buon testo, godibile sotto l'ombrellone. Niente di più. 

I custodi di Slade House
David Mitchell
Frassinelli, pp. 233, 2016
19,00