mercoledì 26 ottobre 2016

Sporco ciclismo

Danilo Di Luca, abruzzese doc, amante di arrosticini e buona tavola, non esita a definirsi un campione. Lui è nato col talento per le due ruote e con la determinazione e la corazza di autostima che indossa può vincere tutto. «Sto bene. Domani vinco» è un mantra che ripete a compagni, direttori sportivi e amici di una vita. Con questa autobiografia dove il senso di colpa non esiste, dove il più piccolo senso di vergogna non affiora, Di Luca tesse le lodi di sé stesso riuscendo abilmente a trasformarsi da colpevole a vittima designata, carne da macello tra le mani di CONI, UCI e WADA; bersaglio di un complotto più grande di lui. Spinto dalla rabbia e dalla convinzione di aver subito un torto racconta la sua storia con il doping e così facendo, secondo la sua prospettiva, racconta la storia di tutti i ciclisti del pianeta. Nel ciclismo professionistico, è la tesi, chi afferma di andare a pane e acqua mente. Tutti si fanno, tutti si “curano”.

Voleva essere una bomba per il movimento ciclistico, sarà nel bene o nel male un cerino. Perché se il movimento tutto è davvero marcio fino al collo allora ben vengano libri-verità che scoperchiano il marciume; si sa che anche nel ciclismo vi sono irregolarità di vario tipo, è inutile fare i puristi del nulla; si sa che il doping è in parte usato ed è lecito supporre che esistano giochi di potere (come del resto anche nel miliardario mondo pallonaro); ma da qui a sparare nel mucchio affermando tesi apodittiche e senza particolari riscontri ce ne passa. La quarta di copertina recita: “Questa è la Gomorra del ciclismo” con buona pace di Roberto Saviano. Una Gomorra del ciclismo sarebbe fatta di nomi, date, luoghi, riferimenti puntuali. Se Saviano cita i Michele Zagaria, i Francesco Schiavone e illustra i loro traffici allo stesso modo Di Luca avrebbe dovuto citare i pezzi grossi, i pesi massimi, i dirigenti collusi, i ciclisti corrotti, coloro che, come afferma lui coperti da sponsor e squadroni in stile Team SKY o Mapei, erano “curati”, cioè dopati. Invece no. Sicuramente per comprensibili timori di querele o ritorsioni di vario tipo ma di denuncia specifica non c’è una vera traccia, una vera pista.
È autore di una impreciso e vago qualunquismo e in diversi passaggi non risparmia fango praticamente a nessuno  dei suoi colleghi; non credendo alle loro affermazioni di andare a pane e acqua. Per esempio riferendosi al mondiale 2000 a Plouay, in Francia, racconta la sua eroica fuga di 200 chilometri, ripresa perché la squadra polacca prima e quella italiana poi, senza alcun senso, si erano messe a tirare il gruppo chiudendo il distacco. Per motivare questo atteggiamento obiettivamente autolesionista Di Luca tira in ballo l’influenza lobbistica dei costruttori e delle federazione e conclude asserendo di aver scoperto che il team  polacco era stato comprato. Affermazione teoricamente plausibile, anche nel ciclismo esisteranno dei farabutti e degli interessi come nel calcio o nel basket ma che non trova alcun riscontro ad un banalissimo fact checking in rete. Per di più non cita nomi, né costruttori né marchi, né corridori. Per quale motivo un lettore dovrebbe dare pieno credito a affermazioni tanto fumose e prive di fondamento?
Ma questo sparare alla cieca nel mucchio è contraddetto più volte dalle stesse dichiarazioni di Di Luca che forse, in un attimo di sobrietà e lucidità mentale, mette in dubbio le sue stesse tesi. “Forse era dopato”, “Non lo sapevo”, “Non so” e guarda caso quando si riferiva a corridori di fama. Nel complesso quando è l’ora di entrare nel merito palesa un atteggiamento svicolante e ambiguo. Come ambiguo e poco chiaro è anche il rapporto soprattutto professionale con il suo medico di fiducia Carlo Santuccione, coinvolto nello scandalo doping denominato “Oil for Drugs” per il quale viene radiato dal mondo sportivo mentre Di Luca viene sospeso per circa tre mesi a causa del rapporto sussistente tra lui e Santuccione, benché la procura sportiva non avesse in effetti provato concretamente l’assunzione di sostanze da parte del ciclista. E qui almeno emerge una verità sulle storture della giustizia sportiva per la quale il solo sospetto costituisce prova di reato, lasciando le porte aperte all’arbitrarietà decisionale, inesistente nell’ambito della giustizia ordinaria.
Diversi sono invece i due casi accertati dall’antidoping di positività al CERA (2009) e EPO (2013) in cui le prove contro Di Luca sono evidenti e il corridore non fatica ad ammetterlo, anzi, in alcuni passaggi molto interessanti, racconta le modalità di somministrazione in endovena dell’EPO (la regina del ciclismo dopato) e si lancia anche nell’elenco delle sostanze dopanti più diffuse quali il GH, ormone della crescita, testosterone, insulina, EPO, vari tipi di CERA, viagra, pastiglie di nitroglicerina, emotrasfusione più o meno potenziata non tacendo gli effetti più devastanti a lungo termine quali ispessimento delle pareti cardiache, tumori e trombosi. A testimonianza dell’incoscienza dell’atleta che si sente onnipotente, al di sopra del mondo e che, in virtù della sua posizione, può tutto; addirittura permettersi di rischiare un colpo apoplettico per vincere una tappa o una classica del Nord. Di Luca, anche nello snocciolare farmaci e posologie, assume un tono naturale, come naturale nel mondo del ciclismo è appunto “curarsi”; l’idea di aver commesso un reato sportivo, una frode di primo livello in un ambiente in cui le prestazioni determinano la vittoria o la sconfitta, non scalfisce la sua spavalderia e la sua costante sbruffonaggine che lo convincono che doparsi è necessario in un mondo di bari; che tutti sono dopati e quindi se il doping è realtà assodata l’idea stessa che esso costituisca reato decade. Insomma si normalizza.

Ciò che non si smorza mai, e che per paradosso rappresenta la sua ancora di salvezza, è l’egocentrismo di cui si fa bandiera e di cui Di Luca stesso è consapevole, accettandone limiti e vantaggi. Infatti spesso recita il copione del Campione, si sente tale, quasi benedetto e inviato dagli dei del ciclismo mondiale ma ad un’attenta analisi di ciò che ha fatto o non ha fatto, in strada e non, e del suo personale Palmarès si noterà che campione non lo è stato; tralasciando la convenzione sociale per cui l’appellativo “campione” è attribuito dal pubblico qualora vi sia giudizio uniforme sull’atleta e non dall’atleta stesso. Perché in fondo cosa ha vinto Di Luca per meritarsi il titolo di Campione? Un Giro d’Italia (2007) con relative tappe, una Liegi-Bastogne-Liegi nello stesso anno, un Giro di Lombardia (2001), diverse tappe di competizioni minori. Praticamente assente al Tour de France, mai vittorioso alla Freccia Vallone o alla Amstel Gold Race; zero successi anche alla Vuelta a Espana, mai piazzato durante i mondiali per professionisti e da dimenticare anche l’esperienza olimpica di Sydney quando era ancora molto giovane. Semmai i campioni sono altri: Nibali, che si è aggiudicato la Tripla Corona (2 Giri d’Italia, 1 Vuelta e 1 Tour de France) oltre a numerose tappe, un Lombardia e una medaglia olimpica sfiorata; Felice Gimondi, plurivincitore nei grandi giri; Francesco Moser, campione del mondo (1977) e asso nelle classiche monumento: Parigi-Roubaix, Milano-Sanremo, Giro di Lombardia oltre che vincitore di un Giro d’Italia (1984); Bradley Wiggins, pluricampione del mondo e plurimedagliato olimpico e vincitore di un Tour nel 2012; tralasciando i vari Froome, Quintana, Bettini, Cipollini, Saronni, Coppi, Bartali.

Un bagno di umiltà e un buon esame di coscienza sarebbero forse i benvenuti.

sabato 22 ottobre 2016

Ender Wiggin è il padre di Katniss Everdeen

La “Young Adult Literature”, cioè quel genere letterario rivolto alle generazioni più giovani di lettori, conosce da anni una progressiva espansione e sta ampliando sempre più le tematiche proposte al giovane pubblico, spaccando a colpi di piccone tabù sociali e sessuali, pregiudizi e ottusità culturali e mettendo il lettore di fronte a situazioni spinose e scivolose senza risparmiargli talvolta la cruda realtà, testimoniando come il genere possa essere definito maturo e non tanto distante dalla letteratura per adulti. Esistono, come in ogni ambito, buoni e cattivi libri, scritti da penne competenti o scribacchini incapaci ma, al netto di un discorso qualitativo che sarebbe troppo lungo, vengono venduti e hanno successo.

Il genere poggia la sua base più solida sull’empatia e sulla vicinanza, soprattutto anagrafica prima ancora che culturale o valoriale, tra il o la protagonista del romanzo e il lettore stesso. Quest’ultimo è condotto a partecipare in prima persona ai dolori, alle sofferenze, alle gioie e alle speranze dei coetanei che si muovono nei più disparati contesti tra le pieghe del libro. Elemento ricorrente, soprattutto nel sottogenere del fantasy distopico ma non solo, è l’atteggiamento di contrasto e di rifiuto verso il mondo degli adulti, che si permette di allungare i tentacoli sulle vite dei giovani ragazzi, di controllarli. Un mondo esecrabile per le sue ipocrisie e da sostituire con un ordine nuovo, un nuovo modello di vita e convivenza reciproca. La YA literature è tanto apprezzata anche perché costituisce una nicchia letteraria a cui solo le nuove generazioni hanno accesso e nella cui produzione ritrovano temi ricorrenti anche nella loro vita quotidiana: la ribellione anche violenta che viene descritta nel libro è la versione edulcorata dei litigi in famiglia, dei dissidi con i genitori piuttosto che con i fratelli o le sorelle, del desiderio di sottrarsi alle grinfie dei professori. Serpeggia un desiderio latente ma evidente di spezzare il filo dell’autorità costituita che sia essa la famiglia o la scuola dove comunque governano gli adulti. Si tratta di un tipo di letteratura che a suo modo dà involontariamente voce ad un conflitto generazionale che non si consuma tra vecchi e più giovani, bensì tra adulti e giovani leve generando nei protagonisti e di riflesso nel lettore attento ed empatico un processo di crescita e formazione; tanto che per molti dei romanzi che afferiscono a questo genere si può parlare di “romanzi di formazione”. In essi infatti si assiste al mutamento dell’eroe, che può essere fisico, psicologico, caratteriale, emotivo; alla sua crescita personale e in rapporto al mondo che lo circonda. Molto spesso i personaggi che incontriamo nelle prima pagine di un romanzo sono diversi da quelli che ci accompagnano fino all’ultima battuta della storia.

Recentemente è stato ripescato e accostato al genere YA un “vecchio” romanzo di fantascienza edito nel 1986, vincitore al tempo dei premi Hugo e Nebula per il miglior romanzo fantascientifico dell’anno. Si tratta de Il gioco di Ender (The forever man nel titolo originale) scritto da Orson Scott Card che, dopo diverse resistenze sacrosante a posteriori, ha deciso di cedere a Hollywood i diritti di produzione cinematografica. Nel 2013 ha così fatto capolino nelle sale Ender’s game, un buon prodotto, sufficiente da un punto di vista cinematografico ma che ha pagato le sfumature psicologiche contenute nel libro, obiettivamente difficili da replicare sul grande schermo in tempi che nel cinema moderno sembrano diventati standardizzati, oltre i quali un film non dovrebbe arrischiarsi a spingersi. (Quando avrete l’occasione di vedere una pellicola americana fate attenzione alla durata: quasi sicuramente si aggira intorno alle due ore, minuto più minuto meno). Al di là dell’eterna questione sulla bontà delle trasposizioni cinematografiche di romanzi di successo, resta il fatto che Il gioco di Ender rappresenta un vero punto di partenza nell’analisi dell’intero genere YA, una sorta di ground zero letterario. Il primo volume del ciclo di Ender Wiggin raccoglie in sé molti stilemi del genere e soprattutto può essere definito come padre putativo dell’attuale e fortunatissima sequela di romanzi-film di carattere distopico: gli Hunger Games di Suzanne Collins, la Divergent series di Veronica Roth e la saga di Maze runner ad opera di James Dashner. La situazione di base da cui si diramano le vicende è sempre la stessa: un gruppo di ragazzi, assoggettati ai voleri più o meno espliciti degli adulti, rinchiusi spesso in strutture da cui è impossibile fuggire, circuiti e controllati, che cerca di fuggire e di combattere contro il potere costituito al fine di impiantare un nuovo ordine. Al confronto di ciò che, fisicamente e psicologicamente, è costretto a subire il giovane Ender, le avventure dei suoi moderni colleghi assumono la conformazione di una passeggiata sui monti.

Il fato di Andrew “Ender” Wiggin è segnato fin dalla sua nascita, anzi prima ancora che venga al mondo. Il giovane terrestre è destinato a salvare la razza umana dall’attacco della specie aliena degli Scorpioni, esseri insettoidi che per necessità demografiche non dissimili da quelle terrestri colonizzano i pianeti abitabili di più sistemi solari diversi. La Terra già due volte ha respinto gli attacchi grazie all’eroismo del misterioso soldato Mazer Rackham; adesso si prospetta un nuovo scontro e il pianeta necessita di un nuovo comandante di flotta, un individuo che abbia in sé l’istinto del killer, dell’assassino senza scrupoli e al contempo conosca la gentilezza e la comprensione umana. È tra questi due estremi che si inserisce Ender, è lui il prescelto che ad appena sei anni viene tolto dalla famiglia e portato sulla stazione orbitante che ospita la Scuola di Guerra, un ambiente militare che non concede spazi di comunicazione con l’esterno e all’interno del quale Ender viene isolato in modo da temprare il suo spirito, al fine di renderlo forte e risoluto nelle sue decisioni. Sottoposto ad una ferrea disciplina Ender deve imparare che, in qualunque situazione si trovi, dovrà cavarsela da solo, non avrà mai alcuna sponda su cui appoggiarsi men che meno dagli adulti che nel romanzo di Card trovano consistenza nei professori e negli ufficiali che si occupano del severo addestramento delle leve. Ender è sottoposto ad una crescente dose di responsabilità, a pressioni psicologiche perpetrate astutamente dai giochi simulati al computer e dalle scelte degli ufficiali della Scuola il cui scopo unico è la formazione di futuri generali da battaglia, di macchine da guerra infallibili. Il tutto al costo disumano e intollerabile di sacrificare l’infanzia e l’innocenza di decine di bambini, quella di Ender in primis. Le giornate di Ender trascorrono tra battaglie simulate, tattiche evasive e offensive, giochi virtuali, soprusi e invidie senza che al lettore sia dato modo di entrare in contatto con il lato bambinesco della vita dei ragazzi, anche perché esso è totalmente assente. Card costringe il giovane Ender ad un percorso crudele, asfissiante, senza compassione né pietà che rischia di culminare con l’esaurimento nervoso del giovane protagonista e dei suoi capi di battaglione, stressati oltre ogni limite durante le simulazioni fin troppo reali alla Scuola Ufficiali.

Ma è solo nella parte che conclude il romanzo che si consuma la crudeltà più efferata ai danni del giovane Ender che, convinto di giocare ad una delle diverse simulazioni belliche finora propostegli, distrugge il pianeta degli Scorpioni commettendo un vero genocidio. Non appena gli vengono rivelate le conseguenze delle sue azioni l’integrità psicofisica subisce un durissimo colpo e il ragazzo, vinto dall’atrocità commessa, cede. È in questo momento che avviene lo sconvolgimento nel paradigma comportamentale e sentimentale di Ender che capisce fino a che punto si è spinto il cinismo della Flotta Internazionale, disposta ad ingannare il suo miglior allievo, trasformandolo in un burattino di talento caricando sulle sue spalle il peso di uno sterminio di massa, pur di vincere la guerra. Contemporaneamente Ender rifiuta l’istinto del killer con il quale ha distrutto il pianete degli Scorpioni per lasciarsi andare al senso di colpa e alla compassione per quel popolo che solo lui era stato in grado di capire e, in fondo, di amare.