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Copertina Garzanti del romanzo. |
L’intreccio narrativo, che
viene periodicamente definito “garbuglio”, “nodo”, “groppo”, “groviglio”
facendo intendere già la polisemia e la sinonimia che compongono lo stile
gaddiano, si presenta al lettore come un comune romanzo giallo dotato degli
stereotipi del genere: un delitto, un corpo di polizia che indaga, un
protagonista interno al suddetto corpo di polizia e lo sviluppo del bandolo narrativo
attraverso scoperte accidentali, interrogazioni in commissariato e ricerche sul
campo. Nel Pasticciaccio i reati sono
addirittura due, lasciando presagire un filo rosso comune che li unisca come da
prassi moderna, ovvero: furto con scasso e omicidio efferato. Protagoniste
degli eventi due signore abitanti sullo stesso pianerottolo di un palazzo
romano, la signora Menecacci e la sora Liliana Balducci. Quest’ultima viene ritrovata
morta dal cugino Valdarena, col quale aveva costruito un rapporto altamente
ambiguo dettato dal desiderio di maternità insoddisfatto a causa del di lei
coniuge, riversa sul pavimento della cucina con la gola squarciata, segno di
una violenza brutale. A guidare le ricerche un comando di polizia romano tra
cui spicca il dottor Ciccio Ingravallo, un poliziotto duro, dai tratti aquilini
e dai capelli neri come la pece, estremamente riflessivo. Un archetipo dei
proliferanti ispettori e commissari che abitano gli schermi televisivi e i
libri di successo: dal Montalbano impersonato da Luca Zingaretti al Rocco
Schiavone nato dalla penna di Antonio Manzini. È un commissario ante litteram, calato a viva forza
nell’Italia fascista degli anni ’20, ben lontano sia dall’acume distaccato e
imprevedibile di Sherlock Holmes come anche dall’eleganza intellettuale di
Hercule Poirot. Per il lettore “giallovoro” (come direbbe Gadda) che si
aspettasse un’evoluzione lineare del racconto ci sarebbe spazio solo per lo
stupore e, sicuramente, la delusione. Gadda infatti costruisce un anti-giallo,
via via che il testo procede lo destruttura, lo trasforma in una parodia del
genere in cui Agatha Christie ha eccelso. Le indagini e gli interrogatori non
diventano altro che un pretesto per l’autore per penetrare con il bisturi della
lingua e delle digressioni nell’intimità psicologica sia dei singoli
protagonisti che della realtà che li circonda. Una realtà che cade sotto i
colpi ironici dell’autore milanese il quale, partendo dall’interno della
stessa, si diverte a ridicolizzarla, a farne un’eco di sé stessa. Il giallo si
tramuta in farsa tanto che alla fine dell’intero racconto i colpevoli, pur se
probabilmente individuati, non vengono
catturati. Gadda sembra quasi prendersi gioco del lettore che, in uno sforzo
non secondario nel tentativo di rendere intellegibile una prosa che
intellegibile spesso non è, si ritrova col cerino in mano una volta giunto
all’ultima riga dell’ultima pagina. Sembra udire Gadda spernacchiare il
malcapitato di turno.
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Carlo Emilio Gadda |
Le cifre stilistiche di
questo libro sui generis sono principalmente
due: il forte espressionismo e l’inventiva linguistica, vero elemento di scarto
rispetto a qualunque altra forma e tradizione narrativa mai conosciute in
Italia. L’espressionismo gaddiano è caratterizzato da descrizioni evocative e
molto spesso minuziose che tentano di penetrare e individuare la vera essenza
di oggetti, cose, luoghi e persone e che, una volta concluse, sembrano
suggerire l’impossibilità della parola scritta di carpire l’essenza ultima di
ogni cosa, di colmare la distanza che esiste tra ciò che è e la sua
rappresentazione, sia essa grafica, visiva o scrittoria. Diversissime nel corso
del romanzo sono queste incursioni che interrompono lo svolgimento nella trama
costringendo il lettore ad entrare in un nuovo mondo mai conosciuto prima. L’espressionismo
di Gadda trova compimento in un passo come questo: «Guardava le ragazze,
ricambiava d’un lampo, come une profonda malinconica nota, le guardate ardite
dei giovani: una carezza o una benevola franchia, mentalmente largite ai futuri
largitori della vita: a qualunque le paresse portare in sé la certezza, la
verità germile, gheriglio del segreto divenire». Un prosa lirica e compassionevole
dove il ventre materno che dona la vita viene paragonato ad un gheriglio pronto
a dischiudersi.
Impossibile quando si
affronta Gadda non inciampare, pagina sì pagina no, nel suo linguaggio
poliedrico e polisemico. Una selva di termini dialettali (abbitudine, adottà,
avècce, papabbraschi, sghei) a cui fanno da controcanto neologismi
(scaricabarilistico, dekirkegaardizzare, giallazio) e parole auliche o in
disuso (indelibata, merule, germile, palàncola) che spesso e volentieri costringono a ricorrere al
dizionario Treccani. Quello di Gadda non è tuttavia un mero esercizio di stile
per dimostrare di essere un pozzo di scienza ma, come già fatto con il genere
giallo, l’autore si diverte a distruggere il linguaggio, a desacralizzarlo e a
ricomporlo a proprio piacimento sbizzarrendosi come meglio crede e lanciandosi
in digressioni filosofiche e filologiche, incidentali di molte righe, parentesi
e descrizioni parodistiche e meticolose al limite della pedanteria. Basti pensare
ai passaggi in cui Gadda si sofferma sui gioielli della sora Liliana, sul
tabernacolo lungo la via Appia e sulla visione dall’alto delle colline della
burocratica Roma che giace, nella cornice visiva del brigadiere Pestalozzi,
come un animale addormentato. Qualunque tentativo di riassumere la scrittura di
Gadda sarebbe inutile, vano ed incomprensibile.
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Fotogramma tratto dal corto animato The Ducktators del 1942. Qui reperibile: https://www.youtube.com/watch?v=522qtqjSagM |
Una delle tante note di
colore che percorrono il testo è data dall’incredibile e infinita sequenza di
epiteti con i quali Gadda si diverte a dipingere, senza mai nominarlo per nome
in modo esplicito, Benito Mussolini. A seconda del caso lo chiama il “Buce” o “Predappiofesso”
o ancora “l’Artefice”. Ne mette in risalto, con sagacia sarcastica, il
proverbiale capoccione e ridicolizza quella stessa Italia ordinata, precisa e
orgogliosa di sè (di cui Ingravallo stesso fa parte essendo un polizotto dello
Stato) che il Duce propagandava e propugnava. Una colossale messinscena
retorica che Gadda svilisce limitandosi alla descrizioni delle cloache e delle
viuzze romane dove l’orgoglio italico lascia il posto a battone, ladruncoli,
sicari e povera gente costretta a mendicare o rubacchiare, a seconda dell’indole,
per poter sopravvivere. Lo schiaffo di Gadda alla “Fiera Italia”.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Carlo Emilio Gadda
Garzanti, pp. 344, 1957
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Carlo Emilio Gadda
Garzanti, pp. 344, 1957