
Il primo approccio con un
nuovo autore o autrice conduce sempre ad una biforcazione: da un lato si
percorre la via dell’insensibilità o del distacco emotivo, declinati a seconda
dell’effetto del libro secondo molteplici sfumature; dall’altro si verifica il
colpo di fulmine, l’epifania letteraria che avviluppa il lettore nelle pagine
inchiostrate del libro. Per “Chirù” val e la seconda strada. Inutile negare che
Michela Murgia, nota soprattutto per “Accabadora” e finora vittima da parte di
mia di un immotivato disinteresse, è stata una piacevolissima sorpresa.
“Chirù” fa parte di quel
tipo di romanzi che non hanno genere ma che al contempo al suo interno sanno
fondere e miscelare tipologie testuali che possiedono sfumature proprie. È un
testo che, come un’eco lontana, richiama i romanzi di formazione e che si
intreccia con la dialettica psicologica di cui Eleonora, la protagonista, è
sorgente incessante anche perché la narrazione è in prima persona. A ciò si
aggiunge una storia d’amore atipica, desiderata e ripudiata, voluta e spezzata,
a suo modo sconveniente ed elettrizzante.
La vicenda che Murgia
articola nelle quasi duecento pagine di testo ruota attorno al binomio
Chirù-Eleonora, il quale si configura come il filo rosso che trasporta il lettore
dall’inizio alla fine. Chirù è un ragazzo diciottenne dai riccioli fluidi, timido
e astuto che cerca in Eleonora lo strumento per crescere, maturare ed uscire da
un bozzolo di insicurezza per spiccare il volo. Eleonora è invece la sua
maestra di vita, colei che lo inizia all’ipocrisia strisciante e intrinseca
dell’uomo; gli insegna a munirsi di una maschera, a leggere le altrui finzioni
e tale rivelazione costituirà la loro rovina.

Il personaggio di Eleonora
è sicuramente il più interessante e contraddittorio e l’autrice ne sviscera le sottili ipocrisie, le
riflessioni puntuali velate da un cinismo che si mescola col realismo della
quotidianità; cerca di descrivere la donna matura, più che trentenne, alla luce
dell’esperienza dell’infanzia, dei rapporti incrinati con la famiglia di
sangue, padre, madre e fratello che assumono, nel corso dello svolgimento
narrativo, un peso crescentemente insignificante. Eleonora è anche il prototipo
della “maestra spirituale” che, nella tradizione sarda, è una figura esterna
alla famiglia la quale si prende cura della maturazione e dell’educazione
extrascolastica di un ragazzo o di una ragazza. Tra i due soggetti si crea
quindi un legame sia affettivo-emotivo che intellettuale che esula
completamente dalla parentela di sangue ed è questa tipologia relazionale che
Eleonora avidamente cerca e puntualmente trova.
L’architettura narrativa è
poi sorretta da uno stile letterario preciso, ficcante, puntuale,
caratterizzato da una proprietà lessicale e linguistica che raramente ho
trovato nella narrativa italiana e che mi ha immediatamente suscitato un
paragone tanto scomodo quanto corretto con Philip Roth. Murgia è capace in
poche parole di esprimere un concetto denso di significato sul quale si è
costretti a tornare più volte, non perché risulti incomprensibile, tutt’altro,
ma perché è impossibile non essere catturati o affascinati da come l’autrice
sarda plasma le parole e le frasi.
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