venerdì 27 ottobre 2017

Oltre Escobar

E' passato un anno dalla seconda stagione di Narcos e una scomoda domanda si insinua nella mente degli aficionados: come potrà una serie incentrata su un personaggio solidissimo come Escobar sopravvivere alla morte del suo centro di gravità, del suo polo di morbosa attrazione? Si può parlare di narcos e Colombia senza Pablo Escobar? Verdetto: sì, si può, eccome se si può. Ma facciamo un passo indietro. Narcos, appunto, dove eravamo rimasti? I più affezionati alla serie targata Netflix ricorderanno un inseguimento sui tetti e il cadavere di un Pablo Escobar barbuto, indebolito, lontana immagine del popolare mostro di Medellin, adagiato in una pozza di sangue su banalissime tegole. Circondato dagli agenti Murphy e Pena. Brillante vittoria per la DEA, per gli Stati Uniti e per il governo antinarcos guidato dal presidente César Gaviria. Ma la storia cambia in fretta e il narcotraffico non può arrestare il suo costante flusso "produttivo", soprattutto ora che per i padroni della droga si è aperta una breccia a Nord: America. Canada. In breve l'accordo NAFTA. Quindi, molto semplicemente, morto un papa se ne fa un altro e il posto vacante lasciato nella nomenclatura della droga colombiana viene occupato da un gruppo di intraprendenti uomini che abbiamo già avuto modo di conoscere nella seconda stagione: il cartello di Cali che ha saputo approfittare della debolezza del Patron per ampliare il proprio impero economico, politico e finanziario.


Gilberto Rodriguez, Miguel Rodriguez, Hélmer "Pacho" Herrera e José "Chepe" Santacruz Logrono sono i nuovi boss della droga colombiana e internazionale capaci di massimizzare i profitti grazie all'adozione di una strategia oculata e razionale, orchestrata al millimetro dal capo dei capi, la vera testa pensante del Cartello di Cali, Gilberto Rodriguez. Il modus operandi del Cartel è assai diverso nei modi e nello stile rispetto a quello di Escobar; se il Patron cercava ossessivamente il favore del popolo delle periferie arringando le folle con discorsi degni del miglior populista sulla piazza, investendo denari derivati dalla droga per sostenere economicamente i quartieri più poveri perseguendo con ostinazione maniacale un progetto di accreditamento agli occhi del popolino come Salvatore della Patria, gli uomini di Cali si distinguono per l'eleganza, la discrezione e le buone entrature garantite in qualsiasi ambito: politica, economia, finanza, giustizia, polizia. Per quale motivo spargere sangue mettendo in allerta le autorità e gettando il Paese in una spirale di orrore e violenza difficilmente arrestabile invece di operare nell'ombra stringendo patti e alleanze con le persone più insospettabili e più potenti? Perchè usare il bastone quando puoi usare la diplomazia? In questo modo Cali costruisce il proprio potere che sì, si basa sull'intimidazione, ma ancor di più sulla corruzione. Una corruzione talmente endemica, radicata e ramificata da far temere che la giustizia stavolta possa non farcela a sbattere i padrini in galera. Riciclaggio di denaro, controllo dei porti d'imbarco, sorveglianza del territorio e delle linee telefoniche, investimenti finanziari, politici, poliziotti, sergenti, ministri e agenti a libro paga. Minimo sforzo, massimo risultato per avere il mondo ai propri piedi e agire da una posizione di forza per trattare la resa con il governo. Strano ma vero, i padrini di Cali hanno sottoscritto un accordo con il neoeletto presidente Ernesto Samper che prevede l'interruzione delle attività criminali del cartello in cambio della comminazione di una pena irrisoria per criminali del calibro dei fratelli Rodriguez, Chepe e Pacho Herrera. L'annuncio trionfale della resa che prospetta un futuro legalizzato nel mondo degli affari e degli investimenti è l'inizio di un escalation critica in cui si mescolano interessi personali e utilitaristici, la tenacia di Javier Pena e l'intraprendenza di due nuovi agenti della DEA, il coraggio del tirapiedi Jorge Salcedo e la follia di David Rodriguez, inseguimenti in paradisi fiscali e carceri ad personam; il tutto compone un meccanismo che funziona come un orologio atomico che nemmeno per un attimo fa rimpiangere le passate stagioni.


L'indubbio successo della serie, certificato dal fatto che secondo quanto riportato da Wired Narcos è stata la serie tv più vista in America nel mese di settembre, ha creato inevitabilmente alte aspettative e chi pensava che l'esperienza televisiva di Narcos si fosse esaurita con la morte di Escobar si sbagliava di grosso visto che l'equipe che ha lavorato alla terza stagione ha saputo vincere una sfida non facile tanto che, forse un caso o forse no, nell'indice di gradimento di Rotten Tomatoes la terza stagione batte sia la prima che la seconda (vedere per credere). Narcos 3 prosegue il percorso televisivo già iniziato nel 2015 e improntato alla qualità scenografica e registica investendo con particolare intensità su due elementi: semplificazione della trama e costruzione hitchcockiana della suspence. La struttura narrativa delle 10 puntate cerca a tutti i costi di evitare un'eccessiva complessità e macchinosità, pur non rinunciando ad una studiata architettura, a vantaggio dello spettatore a cui viene risparmiata la fatica di seguire troppi rivoli narrativi che rischiano, mettendo troppa carne al fuoco, di essere chiusi in modo inverosimile oppure di confondere l'esperienza visiva. C'è quindi una trama centrale, l'inevitabile caccia di Pena ai padrini di Cali, a cui si collegano poche ed efficaci sottotrame che permettono un'esperienza più vivida e intensa e favoriscono la caratterizzazione di personaggi nuovi: la guerra di "Pacho" Herrera contro i Salazar, la gestione di Chepe dei traffici del cartello a New York, il percorso umano di Jorge Salcedo. Piccoli tasselli di un grande mosaico equilibrato dove ogni cosa trova il suo posto. Il dipanamento della trama è accompagnato da una profusione di stratagemmi filmico-narrativi in grado di generare una buona dose di adrenalinica tensione che inchioda lo spettatore al divano tra inseguimenti, depistaggi e momenti di suspence assoluta dove trattenere il fiato è d'obbligo e dove la violenza dei narcos lancia un'inevitabile ombra di precarietà su tutti coloro che, nel bene o nel male, sono coinvolti. Il tutto si conclude in attesa che i riflettori si spengano sulla Colombia, su Medellin e su Cali per illuminare un nuovo palcoscenico, il Messico, e la nuova stella nascente del narcotraffico, Joaquin Guzman, aka El Chapo.


domenica 8 ottobre 2017

Nel segno della pecora

La copertina del romanzo.
Il brulicante mondo dei lettori spesso non conosce le mezze misure nell'esprimere un giudizio su una delle personalità letterarie che, nel bene o nel male, da qualunque parte dello schieramento lo si giudichi, ha saputo incidere sulla letteratura contemporanea. Haruki Murakami, o lo si ama o lo si odia. C'è chi lo osanna come maestro della letteratura, come un uomo in grado di creare universi onirici tali da produrre una sensazione di interdizione nel lettore che, sperso nelle pagine dei suoi libri, è privo di una guida e di un appiglio. Parte della comunità letteraria non nasconde la propria perplessità rispetto alla scarsa propensione dell'Accademia di Svezia di assegnare il Nobel a Murakami che sembra avere ereditato, al pari di altri illustri autori ancora a bocca asciutta come Philip Roth, Don DeLillo o Margaret Atwood, la stessa maledizione del DiCaprio pre-Revenant. Dall'altro lato della barricata si trovano i "detrattori" dell'autore di Kyoto: Roberto Cotroneo, pur riconoscendone il talento, ha scritto che "non mi piace Haruki Murakami, e non mi piace perchè mi annoia" criticandone l'eccessivo ermetismo che lo induce alla noia, quella stessa noia che il personaggio di Nel segno della pecora cerca di sfuggire. Ancora, in un recente articolo pubblicato sul suo sito, Paolo Zardi definisce "Norwegian Wood [...] un romanzo inutile" che potrebbe ridursi a pochissime pagine se l'autore evitasse di cedere ad una vacua e noiosa prolissità. Murakami ondeggia dunque tra due estremi che appaiono inconciliabili: la deificazione dell'estro narrativo da un lato e la tediosità oscura, contorta di una scrittura allusiva e ipermetaforica dall'altro.


Nel segno della pecora, uscito nel lontano 1982, racchiude e al contempo anticipa temi, stili e tratti distintivi della scrittura di Murakami. Gli stessi che i lettori più affezionati hanno trovato nelle pubblicazioni seguenti come l'apprezzatissimo Kafka sulla spiaggia (2002), l'altrettanto corposo La fine del mondo e il paese delle meraviglie (1985) o anche Dance Dance Dance (1988), ideale seguito de Nel segno della pecora. Anche in questo romanzo (quasi d'esordio) il non-detto dell'esistenza e sull'esistenza del protagonista, che si trasforma inevitabilmente in un non-detto narrativo, innesca un processo conflittuale nel lettore che storce il naso all'idea di sapere poco o nulla dell'eroe (basti pensare che tutti i personaggi rimangono anonimi o nascosti dietro un appellativo) ma al contempo ne è inconsciamente ipnotizzato e incuriosito. Il protagonista, un giovane pubblicitario quasi giunto alla soglia dei trent'anni, rientra a pieno titolo nella categoria dei personaggi picareschi di Murakami: donne, bambini, vecchi, giovani uomini che, per motivi che spesso esulano dalla logica e dalla razionalità, intraprendono un percorso di viaggio volto alla ricerca del sé. Il vecchio Nakata e il giovane Tamura di Kafka sulla spiaggia o il suddetto pubblicitario sono emblemi di un'umanità sperduta, a volte fallita che cerca se stessa. Il pretesto del viaggio in questo caso, pur strano che sia, è rappresentato da una rarissima specie di pecora con una macchia a forma di stella sulla schiena che il giovane è incaricato di cercare dopo che la sua agenzia pubblicitaria ha pubblicato, all'interno di una banalissima newsletter, una fotografia in cui la pecora appariva all'interno di un più ampio gregge. Contattato da un misterioso e minaccioso uomo vestito di nero, che si presenta come il braccio destro di un potentissimo uomo politico di destra, detto il Maestro, il giovane si trova suo malgrado a dover fare i conti con un ricatto: il ritrovamento della pecora, che per qualche strana ragione potrebbe rappresentare l'ultima speranza di vita per il boss morente, in cambio della sopravvivenza dell'agenzia pubblicitaria di cui è consocio. Il giovane, con un recentissimo divorzio alle spalle e intrappolato in un'esistenza abitudinaria cui non riesce ad attribuire un significato, coglie l'occasione di buttare la propria vita alle spalle e imbarcarsi in un viaggio senza meta precisa nè serie possibilità di riuscita. La ricerca nel segno della pecora, metafora del viaggio alla ricerca del sé, lo conduce in un'ampia radura sperduta e fredda nella regione dello Hokkaido dove, all'interno di una accogliente baita di montagna, alcuni nodi verranno al pettine. Alcuni, non tutti. Sia mai che il buon Haruki ci sveli troppo delle sue storie.

Murakami Haruki
Per gli ammiratori di Murakami Nel segno della pecora è una tappa irrinunciabile, nonché l'ennesima occasione per toccare con mano il realismo magico del giapponese che sembra divertirsi come un bambino nell'inserire frammenti di pura irrealtà nelle proprie strutture e logiche narrative: ragazze con orecchie magiche in grado di funzionare da recettori solo se esposte all'interlocutore, autisti che telefonano a Dio, improbabili discussioni senza senso (almeno apparente) sulla natura dei nomi delle cose e altre bizzarrie che rendono unico lo stile di Murakami. Una scrittura pacata e accurata, quasi da ritmo sincopato, che ubriaca e ipnotizza il lettore proprio nei momenti di stanca dell'azione romanzesca dove i ritmi rallentano, i dialoghi si sospendono e il silenzio delle cose prende il sopravvento su tutto, anche sull'autore stesso, come se il romanzo diventasse la caverna adatta in cui fare riverberare l'eco del silenzio. L'intrinseca polisemia delle figure murakamiane lascia aperti ampi spiragli interpretativi rispetto al senso e alla funzione della pecora, alle scelte e al futuro del giovane pubblicitario, al senso più profondo di un viaggio fisico e spirituale da Tokyo allo Hokkaido, dall'urbanizzazione alla natura incontaminata. Leggere Murakami significa mettere in gioco se stessi e parte della propria capacità di lettura e interpretazione del mondo. Per i critici e i detrattori è indubbio che convenga starne alla larga, onde evitare di imbattersi in noiosi dialoghi, finali aperti e significati impalpabili.

Murakami Haruki

Nel segno della pecora
Einaudi, pp. 293, 2010
19,50