giovedì 29 dicembre 2016

Quel Pasticciaccio di Gadda

Copertina Garzanti del romanzo.
 L'ultimo post dell'anno lo dedico ad un libro molto particolare: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda. Il Pasticciaccio rappresenta, all’interno della produzione bibliografica di Gadda, l’opera più significativa e più nota al grande pubblico. Parte dell’attuale romanzo fu pubblicata dapprima sulla rivista Letteratura nel biennio 1946-47 e poi in forma compiuta, come oggi lo conosciamo, dall’editore Livio Garzanti nel 1957. È proprio grazie a Garzanti, editore di Pasolini, Fenoglio e Parise tra gli altri, che oggi possiamo leggere Gadda; fu infatti proprio lui che trasformò l’autore milanese da scrittore d’élite a romanziere di successo ripubblicando gran parte delle sue opere.

L’intreccio narrativo, che viene periodicamente definito “garbuglio”, “nodo”, “groppo”, “groviglio” facendo intendere già la polisemia e la sinonimia che compongono lo stile gaddiano, si presenta al lettore come un comune romanzo giallo dotato degli stereotipi del genere: un delitto, un corpo di polizia che indaga, un protagonista interno al suddetto corpo di polizia e lo sviluppo del bandolo narrativo attraverso scoperte accidentali, interrogazioni in commissariato e ricerche sul campo. Nel Pasticciaccio i reati sono addirittura due, lasciando presagire un filo rosso comune che li unisca come da prassi moderna, ovvero: furto con scasso e omicidio efferato. Protagoniste degli eventi due signore abitanti sullo stesso pianerottolo di un palazzo romano, la signora Menecacci e la sora Liliana Balducci. Quest’ultima viene ritrovata morta dal cugino Valdarena, col quale aveva costruito un rapporto altamente ambiguo dettato dal desiderio di maternità insoddisfatto a causa del di lei coniuge, riversa sul pavimento della cucina con la gola squarciata, segno di una violenza brutale. A guidare le ricerche un comando di polizia romano tra cui spicca il dottor Ciccio Ingravallo, un poliziotto duro, dai tratti aquilini e dai capelli neri come la pece, estremamente riflessivo. Un archetipo dei proliferanti ispettori e commissari che abitano gli schermi televisivi e i libri di successo: dal Montalbano impersonato da Luca Zingaretti al Rocco Schiavone nato dalla penna di Antonio Manzini. È un commissario ante litteram, calato a viva forza nell’Italia fascista degli anni ’20, ben lontano sia dall’acume distaccato e imprevedibile di Sherlock Holmes come anche dall’eleganza intellettuale di Hercule Poirot. Per il lettore “giallovoro” (come direbbe Gadda) che si aspettasse un’evoluzione lineare del racconto ci sarebbe spazio solo per lo stupore e, sicuramente, la delusione. Gadda infatti costruisce un anti-giallo, via via che il testo procede lo destruttura, lo trasforma in una parodia del genere in cui Agatha Christie ha eccelso. Le indagini e gli interrogatori non diventano altro che un pretesto per l’autore per penetrare con il bisturi della lingua e delle digressioni nell’intimità psicologica sia dei singoli protagonisti che della realtà che li circonda. Una realtà che cade sotto i colpi ironici dell’autore milanese il quale, partendo dall’interno della stessa, si diverte a ridicolizzarla, a farne un’eco di sé stessa. Il giallo si tramuta in farsa tanto che alla fine dell’intero racconto i colpevoli, pur se probabilmente  individuati, non vengono catturati. Gadda sembra quasi prendersi gioco del lettore che, in uno sforzo non secondario nel tentativo di rendere intellegibile una prosa che intellegibile spesso non è, si ritrova col cerino in mano una volta giunto all’ultima riga dell’ultima pagina. Sembra udire Gadda spernacchiare il malcapitato di turno.

Carlo Emilio Gadda
Le cifre stilistiche di questo libro sui generis sono principalmente due: il forte espressionismo e l’inventiva linguistica, vero elemento di scarto rispetto a qualunque altra forma e tradizione narrativa mai conosciute in Italia. L’espressionismo gaddiano è caratterizzato da descrizioni evocative e molto spesso minuziose che tentano di penetrare e individuare la vera essenza di oggetti, cose, luoghi e persone e che, una volta concluse, sembrano suggerire l’impossibilità della parola scritta di carpire l’essenza ultima di ogni cosa, di colmare la distanza che esiste tra ciò che è e la sua rappresentazione, sia essa grafica, visiva o scrittoria. Diversissime nel corso del romanzo sono queste incursioni che interrompono lo svolgimento nella trama costringendo il lettore ad entrare in un nuovo mondo mai conosciuto prima. L’espressionismo di Gadda trova compimento in un passo come questo: «Guardava le ragazze, ricambiava d’un lampo, come une profonda malinconica nota, le guardate ardite dei giovani: una carezza o una benevola franchia, mentalmente largite ai futuri largitori della vita: a qualunque le paresse portare in sé la certezza, la verità germile, gheriglio del segreto divenire». Un prosa lirica e compassionevole dove il ventre materno che dona la vita viene paragonato ad un gheriglio pronto a dischiudersi.

Impossibile quando si affronta Gadda non inciampare, pagina sì pagina no, nel suo linguaggio poliedrico e polisemico. Una selva di termini dialettali (abbitudine, adottà, avècce, papabbraschi, sghei) a cui fanno da controcanto neologismi (scaricabarilistico, dekirkegaardizzare, giallazio) e parole auliche o in disuso (indelibata, merule, germile, palàncola) che  spesso e volentieri costringono a ricorrere al dizionario Treccani. Quello di Gadda non è tuttavia un mero esercizio di stile per dimostrare di essere un pozzo di scienza ma, come già fatto con il genere giallo, l’autore si diverte a distruggere il linguaggio, a desacralizzarlo e a ricomporlo a proprio piacimento sbizzarrendosi come meglio crede e lanciandosi in digressioni filosofiche e filologiche, incidentali di molte righe, parentesi e descrizioni parodistiche e meticolose al limite della pedanteria. Basti pensare ai passaggi in cui Gadda si sofferma sui gioielli della sora Liliana, sul tabernacolo lungo la via Appia e sulla visione dall’alto delle colline della burocratica Roma che giace, nella cornice visiva del brigadiere Pestalozzi, come un animale addormentato. Qualunque tentativo di riassumere la scrittura di Gadda sarebbe inutile, vano ed incomprensibile.

Fotogramma tratto dal corto animato The Ducktators del 1942.
Qui reperibile: https://www.youtube.com/watch?v=522qtqjSagM
Una delle tante note di colore che percorrono il testo è data dall’incredibile e infinita sequenza di epiteti con i quali Gadda si diverte a dipingere, senza mai nominarlo per nome in modo esplicito, Benito Mussolini. A seconda del caso lo chiama il “Buce” o “Predappiofesso” o ancora “l’Artefice”. Ne mette in risalto, con sagacia sarcastica, il proverbiale capoccione e ridicolizza quella stessa Italia ordinata, precisa e orgogliosa di sè (di cui Ingravallo stesso fa parte essendo un polizotto dello Stato) che il Duce propagandava e propugnava. Una colossale messinscena retorica che Gadda svilisce limitandosi alla descrizioni delle cloache e delle viuzze romane dove l’orgoglio italico lascia il posto a battone, ladruncoli, sicari e povera gente costretta a mendicare o rubacchiare, a seconda dell’indole, per poter sopravvivere. Lo schiaffo di Gadda alla “Fiera Italia”.

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Carlo Emilio Gadda
Garzanti, pp. 344, 1957



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