martedì 13 dicembre 2016

Siete voi il 3%?



Con 3% Netflix ha vinto la sua scommessa brasiliana. Dubbi legittimi potevano sorgere di fronte a questa sperimentazione che rompe decisamente con la tradizione di serie televisive americane (GOT, Breaking Bad, How I met your mother) o britanniche (The Crown, Sherlock) a cui ormai da anni siamo abituati. Con 3% si respira inevitabilmente un’aria nuova, non forse nei contenuti che come vedremo non sono particolarmente innovativi, ma nel ritmo, nella composizione, nei dialoghi e nella musica. 
L’idea da cui l’ideatore Pedro Aguilera è partito rientra in quella fortunatissima categoria young adult che va sotto il nome di racconto distopico. Celebri sono i personaggi che hanno popolato negli ultimi anni il mondo cinematografico di questo genere: dalla Katniss Everdeen di Hunger Games alla Trice Prior della serie Divergent, passando per i ragazzi in fuga di Maze runner. Tutti uniti dalla stessa età anagrafica, una rivolta giovanile contro un vecchio potere costituito corrotto. E anche in 3% ritornano le stesse dinamiche, gli stessi stilemi narrativi e gli stessi giovani; quindi nulla di nuovo sotto il sole ma ciò che è “usato” non rappresenta necessariamente una noiosa ripetizione. Sin dalla prima scena siamo catapultati in un mondo “altro”, in un futuro prossimo che, come nelle migliori distopie, così lontano potrebbe non essere. La popolazione è divisa in due fette: un 97% di indigenti poveri lasciati a vivere in quella che dall’alto appare come una favela colorata, percorsa da vicoli stretti e angusti, popolata da misera gente vestita di stracci e che fatica a procacciarsi cibo. Ecco che già dalla primissima inquadratura l’esperienza brasileira della serie inizia ad infiltrarsi nella mente attenta dello spettatore che non può sottrarsi dal chiedersi: e il restante 3%? Il misero resto della popolazione vive in un luogo distante e inaccessibile, una specie di isola felice lontana dalla povertà, chiamata Offshore, come i paradisi fiscali. E in effetti rappresenta un paradiso agli occhi di quei giovani del ghetto che partecipano al Processo, ovvero un passaggio rituale che consiste in diverse prove di gruppo e individuali per testare le qualità dei singoli pretendenti e determinare la loro legittimità a diventare parte della società ideale che abita nell’Offshore, dove la sola idea del suicidio porta con sé lo stigma della riprovazione generale. D’altronde, in una società perfetta come è possibile provare tanta tristezza e depressione da pensare di togliersi la vita?

I ragazzi protagonisti, i cui percorsi pre-Processo e le cui vicende umane e personali vengono gradualmente chiarite nel corso delle prime puntate, si trovano invischiati in un gioco cinico che li mette spesso uno contro l’altro spingendoli in situazioni estreme che rivelano la vera natura dei protagonisti e che pongono domande morali non solo a Michele, Fernando, Joana, Marco, Rafael ma anche allo spettatore. Cosa avresti fatto tu? Avresti tradito o avresti sacrificato all’altare dell’onestà e della integrità morale l’unica possibilità di una vita migliore? Fino a che punto saresti disposto a spingerti per ottenere ciò che brami? Sei disposto anche a morire? Sono questi e altri dilemmi morali che essi devono risolvere e non sempre è possibile venire a capo di una soluzione quando l’etica si scontra con l’interesse. In questo meccanismo perverso e affascinante, in cui chi tiene il telecomando prova il sollievo del non-decidere e dell’ignavia, lo spettatore viene trascinato aspettando con trepidazione le prove a cui i ragazzi sono sottoposti e le loro capacità intellettive e organizzative per risolvere gli enigmi e i problemi che vengono loro presentati. Ci divertiamo nell’ accompagnarli in questa gimcana torturatrice la cui unica via d’uscita sta nella sconfitta del proprio compagno. Come ogni altra serie televisiva che si rispetti, il racconto è percorso da sottotrame, più o meno riuscite, come per esempio la presenza ineludibile di una Causa che combatte contro lo status quo e cerca di sabotare il Processo dall’interno e dall’esterno.


In conclusione l’intera produzione è caratterizzata da una buona regia che cerca spesso i primi piani e l’enfatizzazione dell’emotività e dell’interiorità dei personaggi; da dialoghi veloci e serrati in cui si insinua una colonna sonora interessante di matrice portoghese che accentua nello spettatore, assuefatto a musiche zimmeriane o da colossal, il senso di straniamento per la serie. Da notare anche la povertà di mezzi di cui la produzione ha disposto e la capacità di tenere in piedi l’intero progetto all’interno di spazi molto limitati ed esigui ma efficacemente caratterizzanti. Infine la serie, al di là dei singoli garbugli morali che la attraversano, tocca un tasto dolente e accende la luce su una riflessione attualissima e cioè la disuguaglianza sempre crescente tra un esiguo numero di ultraricchi e un ammasso di miliardi di persone sempre più povero. 3% è una esagerazione e infatti è un’opera di ficiton ma siamo così sicuri che qualcosa di simile non possa verificarsi, pur con le dovute differenze, in futuro? Che non sorga la necessità di fare una cernita dell’umanità “migliore”? Che non si assista ad una crescente conflittualità tra ricchi e poveri? Che non diventeremo anche noi tanti piccoli Rafael o Michele o Marco? Per ora non ci sono risposte ma per scoprire i destini di questi ragazzi non resta altro che accendere Netflix e attaccare 3%.

Voto complessivo: 8/10
Trama: 8/10
Musiche:7/10
Personaggi: 8/10
Regia: 7/10

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