Con
3% Netflix ha vinto la sua scommessa brasiliana. Dubbi legittimi potevano
sorgere di fronte a questa sperimentazione che rompe decisamente con la
tradizione di serie televisive americane (GOT,
Breaking Bad, How I met your mother) o britanniche (The Crown, Sherlock) a
cui ormai da anni siamo abituati. Con 3% si respira inevitabilmente un’aria
nuova, non forse nei contenuti che come vedremo non sono particolarmente
innovativi, ma nel ritmo, nella composizione, nei dialoghi e nella musica.
L’idea da cui l’ideatore Pedro Aguilera è partito rientra in quella fortunatissima categoria young adult che va sotto il nome di racconto distopico. Celebri sono i personaggi che hanno popolato negli ultimi anni il mondo cinematografico di questo genere: dalla Katniss Everdeen di Hunger Games alla Trice Prior della serie Divergent, passando per i ragazzi in fuga di Maze
runner. Tutti uniti dalla stessa età anagrafica, una rivolta giovanile
contro un vecchio potere costituito corrotto. E anche in 3% ritornano le stesse
dinamiche, gli stessi stilemi narrativi e gli stessi giovani; quindi nulla di
nuovo sotto il sole ma ciò che è “usato” non rappresenta necessariamente una
noiosa ripetizione. Sin dalla prima scena siamo catapultati in un mondo “altro”,
in un futuro prossimo che, come nelle migliori distopie, così lontano potrebbe
non essere. La popolazione è divisa in due fette: un 97% di indigenti poveri
lasciati a vivere in quella che dall’alto appare come una favela colorata,
percorsa da vicoli stretti e angusti, popolata da misera gente vestita di
stracci e che fatica a procacciarsi cibo. Ecco che già dalla primissima
inquadratura l’esperienza brasileira
della serie inizia ad infiltrarsi nella mente attenta dello spettatore che non
può sottrarsi dal chiedersi: e il restante 3%? Il misero resto della
popolazione vive in un luogo distante e inaccessibile, una specie di isola
felice lontana dalla povertà, chiamata Offshore, come i paradisi fiscali. E in effetti
rappresenta un paradiso agli occhi di quei giovani del ghetto che partecipano
al Processo, ovvero un passaggio rituale che consiste in diverse prove di
gruppo e individuali per testare le qualità dei singoli pretendenti e determinare
la loro legittimità a diventare parte della società ideale che abita nell’Offshore,
dove la sola idea del suicidio porta con sé lo stigma della riprovazione
generale. D’altronde, in una società perfetta come è possibile provare tanta
tristezza e depressione da pensare di togliersi la vita?
I
ragazzi protagonisti, i cui percorsi pre-Processo e le cui vicende umane e
personali vengono gradualmente chiarite nel corso delle prime puntate, si
trovano invischiati in un gioco cinico che li mette spesso uno contro l’altro
spingendoli in situazioni estreme che rivelano la vera natura dei protagonisti
e che pongono domande morali non solo a Michele, Fernando, Joana, Marco, Rafael
ma anche allo spettatore. Cosa avresti fatto tu? Avresti tradito o avresti sacrificato
all’altare dell’onestà e della integrità morale l’unica possibilità di una vita
migliore? Fino a che punto saresti disposto a spingerti per ottenere ciò che
brami? Sei disposto anche a morire? Sono questi e altri dilemmi morali che essi
devono risolvere e non sempre è possibile venire a capo di una soluzione quando
l’etica si scontra con l’interesse. In questo meccanismo perverso e
affascinante, in cui chi tiene il telecomando prova il sollievo del
non-decidere e dell’ignavia, lo spettatore viene trascinato aspettando con
trepidazione le prove a cui i ragazzi sono sottoposti e le loro capacità
intellettive e organizzative per risolvere gli enigmi e i problemi che vengono
loro presentati. Ci divertiamo nell’ accompagnarli in questa gimcana
torturatrice la cui unica via d’uscita sta nella sconfitta del proprio compagno.
Come ogni altra serie televisiva che si rispetti, il racconto è percorso da
sottotrame, più o meno riuscite, come per esempio la presenza ineludibile di
una Causa che combatte contro lo status
quo e cerca di sabotare il Processo dall’interno e dall’esterno.
In
conclusione l’intera produzione è caratterizzata da una buona regia che cerca
spesso i primi piani e l’enfatizzazione dell’emotività e dell’interiorità dei
personaggi; da dialoghi veloci e serrati in cui si insinua una colonna sonora
interessante di matrice portoghese che accentua nello spettatore, assuefatto a
musiche zimmeriane o da colossal, il senso di straniamento per la serie. Da notare
anche la povertà di mezzi di cui la produzione ha disposto e la capacità di
tenere in piedi l’intero progetto all’interno di spazi molto limitati ed esigui
ma efficacemente caratterizzanti. Infine la serie, al di là dei singoli garbugli
morali che la attraversano, tocca un tasto dolente e accende la luce su una
riflessione attualissima e cioè la disuguaglianza sempre crescente tra un
esiguo numero di ultraricchi e un ammasso di miliardi di persone sempre più
povero. 3% è una esagerazione e infatti è un’opera di ficiton ma siamo così sicuri che qualcosa di simile non possa
verificarsi, pur con le dovute differenze, in futuro? Che non sorga la necessità
di fare una cernita dell’umanità “migliore”? Che non si assista ad una
crescente conflittualità tra ricchi e poveri? Che non diventeremo anche noi
tanti piccoli Rafael o Michele o Marco? Per ora non ci sono risposte ma per
scoprire i destini di questi ragazzi non resta altro che accendere Netflix e
attaccare 3%.
Voto complessivo: 8/10
Trama: 8/10
Musiche:7/10
Personaggi: 8/10
Regia: 7/10
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