lunedì 25 settembre 2017

Lapides ad legendum

La copertina del romanzo.
L'abitudine arruginisce lo spirito critico e la consuetudine banalizza le più grandi conquiste che l'umanità ha compiuto. Il clic dell'interruttore della luce è un gesto ormai talmente ovvio da impedirci di comprendere la rivoluzionarietà della scoperta da un lato e di immaginare come fosse la vita prima dell'invenzione di Thomas Edison dall'altro. L'accesso alle informazioni di Wikipedia costituisce un'abitudine imprescindibile per diverse generazioni di giovani e non solo, nonostante questo sia entrato nella pratica quotidiana da poco; l'enciclopedia digitale è infatti nata nel non lontano 2001 e in pochissimi anni ha sostanzialmente mandato in pensione le vecchie, care e voluminose enciclopedie e ha modificato le modalità di ricerca di milioni di studenti. Lo stesso discorso, facendo un balzo di qualche secolo all'indietro, è valido per un ritrovato per noi banale ma che ha letteralmente cambiato la vita a miliardi di persone: la scoperta del vetro per la produzione degli occhiali. La vicenda che Roberto Tiraboschi prende a pretesto per la costruzione di un romanzo in bilico tra la narrazione storico-geografica e il registro giallo è quella della ricerca della formula segreta per trasformare il vetro in uno strumento atto a sconfiggere il morbo della vista: la cecità. Chi indossa gli occhiali, qualunque problema ottico debba sopportare, comprende molto bene l'importanza di avere due belle lenti convesse ai due lati del naso, come rotonde ali di gabbiano. Senza di esse la lettura diventa una faticaccia costringendo gli occhi a strizzarsi, la guida si trasforma in una pericolosa gimcana dove l'accecato rappresenta un pericolo pubblico per la sicurezza, il mondo si trasforma in un miscuglio di macchie colorate indistinte che assomigliano alle ninfee di Monet. Agli albori del XII secolo la fabbricazione degli occhiali era un lontano miraggio e coloro che soffrivano di problemi oculistici si dovevano rassegnare a vedere lentamente e costantemente calare le tenebre sui propri occhi. Una delle tante anime in pena è Edgardo d'Arduino, scriba e amanuense dell'abbazia di Bobbio, la cui menomazione in giovanissima età rappresenta un colpo morale durissimo per chi dedica la propria vita monacale alla copiatura di testi sacri e antichi.


Con un narrazione in medias res che lascia poco spazio alla presentazione dei luoghi e dei personaggi, ci ritroviamo ad accompagnare Edgardo lo Storpio e fratello Ademaro dall'abbazia benedettina di Bobbio a quella di San Giorgio, vicino alla laguna dove, tra isolotti sabbiosi e rii sinuosi, sorge una Venetia molto diversa da quella che conosciamo. Ademaro ha rivelato a Edgardo che nella città dei Dogi alcuni fiolari, cioè maestri vetrai, hanno scoperto il modo di creare delle pietre per gli occhi. Pietre di vetro, lapides ad legendum, dal potere miracoloso in grado di sconfiggere il brutto male di qualsiasi accecato. Spinto dalla speranza di rintracciare gli autori di tale prodigio, Edgardo si inoltra in una Venetia in via di costruzione e ampliamento ma lontanissima dallo splendore della futura Serenissima; una città melliflua, infida, ambigua e pericolosa dove omicidi cruenti in cui i bulbi oculari dei cadaveri vengono rimpiazzati da colate di vetro si susseguono senza sosta convincendo i veneziani di essere maledetti da Dio. Il fermento palpabile nel mondo dei maestri vetrai è alimentato dalla possibilità sempre più concreta che qualcuno riesca finalmente a trovare la formula magica per la fabbricazione del vetro cristallino, chimera di qualsiasi artista del vetro. Una scoperta che garantirebbe al suo scopritore una fama imperitura. Edgardo si ritrova suo malgrado coinvolto in un'aspra lotta per la conquista della gloria che mescola le esistenze e i cammini di un burbero ma utopico fiolario, Angelo Segrado, di un ricco e viscido artista del mosaico e del vetro, Tataro, di un mercante ineffabile, Karamago e di un cristallere pataccaro di nome Zoto, disposto a qualsiasi bassezza pur di raggiungere i propri obiettivi. Ingolosito dalla concreta opportunità di entrare in possesso della magnifica pietra, Edgardo abbandona qualsiasi prudenza e intraprende un percorso di degrado peccaminoso segnato dalla violazione di regole e codici impostigli dalla tonaca. In breve tempo, da predatore si trasforma in preda diventando una marionetta manipolabile da chi agisce senza scrupolo...

Lo stile di Tiraboschi si apprezza per la pulizia e la nitidezza delle frasi e per la ricostruzione storica, geografica e folkloristica di una città antenata dell'odierna Venezia ma sempre afflitta dalla maledetta acqua alta. Lo sceneggiatore bergamasco si nota soprattutto per la capacità di assemblare con le parole il mondo veneziano, tanto da rendere vivide, e financo palpabili, atmosfere, sensazioni e architetture, rivi, calli e architravi. Il libro è un percorso di piacevole accompagnamento al lettore che inorridirà di fronte alla brutalità dell'assassino degli oci, si accalderà fino a sudare durante la preparazione della pasta di vetro nella fornace dei fiolari, si beerà della lucentezza dei mosaici di San Marco e sentirà freddo ai piedi quando il vento maestrale soffierà su Venezia e nella sue calli insidiandosi tra tetti sfatti e precari ponticelli di assi di legno. La prosa di Tiraboschi è dunque palpabile, tangibile nella sua forza comunicativa ed espressiva. La pietra per gli occhi, primo volume di una saga sulla storia di Venezia seguito da La bottega dello speziale, è un piatto gustoso per chi ha saputo amare Il nome della rosa di Umberto Eco, una scia di profumo in grado di risvegliare ricordi offuscati che diventano nitidi figurandosi Sean Connery nei panni di Guglielmo da Baskerville nell'omonimo film di Jean-Jacques Annaud. Potere del cinema! Diversi sono i richiami di trama, assimilabili a plausibili omaggi dell'allievo al maestro: monaci perduti, biblioteche misteriose, manoscritti fatali, religioso fervore. Tutto cucinato a dovere in salsa storico-thriller.

Roberto Tiraboschi
La pietra per gli occhi
e/o, pp. 278, 2016
9,50

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